sabato 11 dicembre 2010

Come una pietra che rotola


Conxa nasce in una numerosa famiglia di contadini, in una campagna catalana, all’inizio del secolo scorso. Troppe bocche da sfamare e poco pane, così la ragazzina viene mandata in paese a vivere con gli zii.
Concepció (abbreviato in Conxa perché più veloce quando si devono richiamare i bambini dai campi, quando si devono dare ordini e indicazioni) è una buona lavoratrice, è volenterosa e silenziosa. È una bambina docile, che conosce solo quello che vede, che non fa domande né richieste, come se vivesse sempre con il cuore in gola. Ma nella casa degli zii scopre una famiglia generosa, persone abituate a non dilungarsi in parole o gesti d’affetto, ma che le dimostrano nella quotidianità il bene e la sicurezza di cui lei ha bisogno. Quando compie sedici anni, appena fiorita per l’amore, incontra Jaume, un uomo energico e sorridente, “nato per farmi passare tutte le paure, per gettare luce nei miei angoli bui e spianare quello che a me sembrava una montagna”.
Dal loro matrimonio hanno tre figli, la vita continua nella casa degli zii, Conxa incanalata nel solco della terra, a lavorare come le hanno sempre insegnato, ancora senza chiedere, sempre senza contraddire.
L’amore per Jaume le fa tremare le gambe dalla gioia, un sentimento potente che ancora la tiene in sospeso, con la paura costante che tutto svanisca, il sentore di un conto aperto da pagare, come se ci fosse sempre una quantità di dolore da scontare.
Jaume è diverso da lei, si interessa a quello che avviene in Spagna, alla nascita della Repubblica, viaggia e passa molto tempo fuori casa per lavoro, quel nido costruito nel ventre delle campagne catalane non gli basta. E un giorno, presto la mattina, le paure di Conxa si realizzano: tre colpi alla porta, degli uomini cercano… nome e cognome… ci segua. E portano via Jaume, prima, e poi lei e i suoi bambini.
Dopo cinquanta giorni di prigionia torna a casa, senza suo marito, “Jaume non sarà più Jaume”. E poi il matrimonio dei figli, i nipoti, Barcellona. Senza l’uomo che l’ha resa una persona Conxa si arrende alla vecchiaia e aspetta solo che il suo tempo finisca.
Centocinquanta pagine in un solo fiato. Maria Barbal cuce parola dopo parola, tende i fili, racconta una parabola lunga ottant’anni senza una pausa. Una scrittura priva di smagliature, la mano di un bambino che ci tira e ci porta per i campi, nella grande casa, nel bianco dei ricordi. Non è mai autocompiaciuta, neanche quando la narrazione diventa poetica. Con un disincanto disarmante svela le piccolezze degli abissi umani, i limiti delle nostre unicità. La si ascolta, Maria Barbal, estasiati, stupefatti di tanta innocenza, di una così luminosa semplicità.  

Maria Barbal, Come una pietra che rotola, Marcos y Marcos, Milano 2010.

lunedì 8 novembre 2010

panic room

Questo non ha a che vedere con la crisi economica e il licenziamento delle operaie dell’Omsa di Faenza, non c’entra con gli scandali italiani. Questa storia non chiede niente al governo e alle sue puttane, non pretende un riconoscimento dalla cattiva gestione delle finanze. Probabilmente poco ha a che vedere con l’urbanizzazione selvaggia e i tram che cadono ogni giorno. Sui fili della luce staccati non pesa il giudizio di un paese in decadimento. Non è una struttura marcia nazionale, sono le mie tasche. E non c’entra l’esternalizzazione selvaggia dei lavoratori, lo sfruttamento legalizzato e le divisioni sociali.
È una storia personale, una scheggia di vetro nascosta nella sabbia, una gravidanza isterica, un cantiere chiuso. Sono occhi strizzati passati al phon ogni mattina. Un’inadeguatezza scopata un po’ più in là, nascosta negli angoli coi bambini di polvere che sussurravano sotto i letti nelle case universitarie. Un attaccamento vischioso, una volontà auto combustibile, un verme bianco e lungo cresciuto nelle venature del legno.
La stanza del panico, le mattine fredde, la voglia di correre, il desiderio di bruciare, la preghiera per un terremoto. Che qualsiasi cosa avvenga, ma che sia un’esplosione a togliermi questa responsabilità dalle clavicole. Da quanto, dopo un viaggio, non torno a casa?

mercoledì 3 novembre 2010

dizionario mnemonico dell'abbandono

gioco – 1

Paoletta sorride al cespuglio che la punge sotto la gonna a fiori. È lì seduta a guardare le grandi tartarughe di pietra, e sua sorella scrive su carta marrone da imballaggio. Con le punte dei piedi ha disegnato un cerchio, ci mette dentro gli avanzi della sua colazione. Matteo è passato stamattina a chiamare, ma mi sono svegliata troppo presto e il sole non era ancora arrivato. Sarà forse l’arrotino, o le sue grida metalliche?, a fare le scintille sul mio latte poco cagliato. Oggi si laurea la mia attitudine verbale e diventa matura sull’albero delle mele. Attento Newton, mantieniti lontano: sta per cadere la grandine.

venerdì 22 ottobre 2010

nei tempi

Nei tempi caldi e in quelli freddi. Nell’umido del mattino e di nuovo in quello della sera, nel sole delle 11 e nelle nuvole che arrivano all’ora di pranzo.
Si lavora col sole, dalle 9 alle 18, e si riposa in piedi, dalle 18 alle 23 (lo si fa stesi da lì alle 8). Nel frattempo ci si sposta dal punto di riposo a quello di lavoro, e si torna indietro. Nel frattempo si va a comprare i prodotti per mangiare, vestirsi, illuminare, scaldare, distrarsi. Si ricarica il cellulare per telefonare e per organizzare come dove e perché nello spazio di tempo tra le 18 e le 23 (al lordo dei tempi di percorrenza).
Ora sono le 11.30, lontane le nuvole del pranzo, percorsi i tempi di percorrenza, le ultime ore disponibili alla produzione se voglio salvare l’oasi del fine settimana.
E tanto per essere nei tempi giusti scrivo questo post che non ha assolutamente niente di utile, nessun tipo di risvolto speculativo ed è assolutamente no profit. E penso a quello che farò domani guardando a quell’oasi di ore tutte mie come l’unico motivo vero per cui valga la pena nuotare anche quando sale in anticipo la marea.

giovedì 14 ottobre 2010

Fa freddo, e io vorrei bere una bottiglia dopo l’altra sotto un cielo violento di stelle. Con la punta del naso gelata fuori dal cappuccio, alzare le mie mani ristrette e bere in faccia a tutto quello che c’è nel mondo. Oggi vorrei bere alle amiche lontane, ai giorni in cui ci scaldavamo col calore dei fianchi, sedute attaccate a succhiarci i pensieri e le sensazioni. Quando inventavamo ricordi che non abbiamo mai avuto e costruivamo delusioni che ci aspettavano un po’ più in là. Vorrei bere per chi tradisce le mie aspettative per realizzare i miei più profondi desideri, mentre guardiamo il tempo che scivola lontano e lanciamo la nostra felicità intorno a noi. Voglio bere per le parole che ho lasciato dire ad altre bocche, ascoltando il mio stesso pensiero ripetuto in una cassa armonica di altre volontà. Sono nella città che ho immaginato, con la vita che ho fatto per me: trasparente e leggera, che mi ferisce a ama, che mi sbatte a terra e mi fa ridere col dolore della carne. E non voglio avere paura della banalità, e non lasciarmi spaventare dai proverbi e dagli stereotipi. Voglio riempirmi la bocca di marzapane e grattarmi la testa, a lungo, scrupolosamente.
Un capitombolo di responsabilità immaginarie, come se il denaro avesse un valore! Come se la realtà avesse delle coordinate! Siamo fatti per stare un po’ più in là di tutto questo, altrimenti non avremmo caldo né freddo e la pioggia non ci bagnerebbe. Se sapessero che ci hanno rinchiuso in una stanza senza soffitto da cui non occorre fuggire! Ah, dio! Potremmo riderne per giorni!

la conta

Non ho fatto bilanci, e non mi sono sentita triste: mi sono solo stupita e dall’esplosione del mio stupore è uscita compatta una nuvola di denso fumo blu.
Ho stappato una bottiglia di Amarone che è scivolato in archi stretti e vicini sul vetro sottile sottile che suona sotto le dita.
“E so che non riuscirei a fermarti, anche se ne avessi le forze non riuscirei a farlo…”.
Girano le mie amiche nell’aria che mi circonda, nel grande vaso vuoto sul cui fondo poggio in piedi.
Ho trovato un posto alle cose: uno spazio per la violenza dell’amore, uno per l’identità, uno per i pensieri tanto profondi e tristi da notte oscura, uno per la nostalgia. La curiosità, la fiducia, lo splendore delle mattine li spargo qua e là come polvere dorata sopra i miei libri.
Mi sono svegliata. Ho visto i volti ingrandirsi e le rughe profonde nei miei compagni di sedile, come se all’improvviso avessi acceso la luce. Sono tornati i brividi e la concentrazione, come se poi la luce si fosse un po’ abbassata per fare pulizia dei pensieri inutili.
E non vorrei scrivere con la voce bassa dell’addio, ma farlo gridando come se fosse l’ultimo giorno della mia vita, e ridendo come se tutto finisse in questo istante, e piangendo come se fossi nata solo ora.

venerdì 10 settembre 2010

nuvolosità britannica

Eppure questo era il mio mese preferito. Per ovvie ragioni anagrafiche, certo, ma anche perché fa il rumore del motore quando metti la prima e dai gas. Settembre è un motore che parte, è il nono fratello, con questo nome tanto lungo, con la S che balla e la E che respira. Ma poi qualcosa, come una nuvola è scesa su questi ultimi. In parte, quella vana, la simpatia anagrafica è stata offuscata da una ricorrenza simile e troppo vicina, che non mi appartiene ma mi sgambetta, che cade dopo la mia festa come una stalattite spezzata, un po’ di intonaco scrostato che mi precipita nel piatto.
Non sottovalutabile è la strada, ovvio. Nessuno ascolta gioioso il rumore della macchina che parte e innesta con leggerezza la marcia superiore quando prosegue nella nebbia fitta. C’è la stessa possibilità che io sia ferma sul tuffo del Ciolo, sulla vetta del Gran Sasso o all’imbocco della via Emilia.
Ci sono quei ricordi recenti, quelli che si rinnovano ogni 12 mesi, che hanno a che fare con ogni stagione passata, ma maggiormente con l’ultima.

Si parlava dell’uva: «Ma a settembre l’uva non c’è ancora».
E invece sì, c’è, la ricordo. Ricordo una collana di giorni infilati su un ferro rovente, attraverso cui sono scivolata indenne mangiando solo uva. Uva tutto il giorno, tutti i giorni, e caffè e sigarette, e telefono muto, e il mio viso nello specchio, di nuovo riconoscibile, di nuovo come unico tratto reale intorno a ciò che lentamente svaniva. Non è passato molto, solo gli altri undici fratelli, non lo dimentico.
Ecco, e forse è questa la ferita che porto ancora, alimentata da parole gocciolanti e umide che restano trattenute e occludono la strada per la cicatrizzazione.
E così ho pensato che invece di farmi rincorrere, io cambio rotta e passo all’inseguimento. E allora scommetto e punto, rischio, adrenalina. E quello che s’è messo di traverso nella gola lo tiro fuori sconsideratamente, senza aspettare il momento giusto, il tono giusto, il luogo giusto, l’umidità giusta.
Ho una gran voglia di confessioni. Mettere in circolo tutte le mie persone, quelle che danno il senso, e a loro dire ogni mio scandalo. Perché è questo che c’è intorno, uno scandalo continuo. Uno scandalo di egoismi abitudinari, bugie trascurabili, sfumature taglienti, nuvolosità britanniche. Incapacità accettate, debolezze che sfoggiamo come colli di pelliccia, cadaveri eletti a chincaglieria, sacrifici per mani di sabbia.

sabato 28 agosto 2010

L'ancora è scesa inghiottita dal nero del fondo, lontano alcuni metri s'è poggiata, silente. Ora galleggio arpionata a un fondale distante, sulla superficie della terra, attratta da un punto gravitazionale nell'universo.
Non si sentono i gabbiani, né in rumore delle vasche col ghiaccio, i passi delle donne, i clacson dei motorini senza casco.
A zi' ha salutato stamattina la nostra partenza, s'è piegata a strappare le foglie secche dei gerani mentre caricavo le borse sull'auto dove tu aspettavi senza spegnere il motore.
È una violenta mattina di sole, un caldo implacabile che ci stacca la pelle dalla fronte, il sudore scende dietro le ginocchia.
Mi sono scivolate via le tua mani, viscide nei palmi umidi. Raccontami. Dove sei stato?
Domani inizia la scuola.
Volevo dirti tante cose, ma le ho dimenticate tutte, cadute sul fondale, rubate dai paguri, ingoiate da un pesce argentato.
Domani inizia la scuola.
Ho parlato a lungo col sardo mentre camminavamo sull'acqua. M'ha spiegato che la pioggia nel cuore non scioglie l'asfalto, e ho visto nelle sue spalle la durezza dei mattoni in terracotta, plasmati coi calli delle mani. E mi ha guarita un po', e mi ha fatto ammalare anche. Che la braccia forti mi fan venire voglia di essere abbracciata e di ricordare l'odore del sale asciugato nelle pieghe delle ascelle.
Così anche questa volta sono fuggita, da un calore desiderato, da un amore così morbido da poterlo spalmare sulle labbra, da far venire voglia di parlare, di aprire i cassetti e tirare fuori le foto, per farle vedere anche lui.
Non abbiamo già vissuto abbastanza? Ho già visto tutto questo. La replica di uno spettacolo bissato.
Ma queste cose non lasciartele sfuggire, portale in mezzo cucchiaino di nostalgia. Restiamo a guardare l'ancora sul fondo, guarda com'è bella, immobile come fosse un miracolo.

sabato 31 luglio 2010

La notte si fa tagliare dalla sfera sottile di una penna. Lascia i suoi odori fuori dalle porte serrate. Su questo materasso è inciso il peso specifico dell'insonnia, macchiato dell'umido dei miei ospiti.
Un libro di tanto tempo fa che torna a raccontarsi, poggiato alla mia spalla scossa.
Il vuoto e l'assenza con cui sciacquo il viso a ogni tramonto, un bracciale arrugginito, un frammento d'unghia.
Oggi una cicala scandisce il tempo, segna l'andamento pendolare della mente dove è rimasta conficcata una zeppetta a lasciare aperte le porte. Per quanto, ancora.

venerdì 30 luglio 2010

Iginio si diverte a sfilacciare il tappeto del mio salotto. Ha bruciato il divano con cicche di sigarette e versato zucchero negli angoli. La notte mi si siede accanto e legge il libro delle mie paure, racconta favole di fantasmi e morti precoci, sussurra agonie e abbandoni. Mi prende la mano ogni mattina e ci versa sabbia da masticare, parla con mia madre e le racconta del mio ventre vuoto.
Iginio ha preso possesso del mio comodino, dorme nel secondo cassetto, tra la biancheria pulita. Mi soffia nelle orecchie un'aria fredda e costante e soddisfatto mi passa un fazzoletto pulito.
Non si può sostare troppo a lungo, non si può parlare d'amore. Lui ha sabotato la bussola, riscritto la cartina autostradale. Mi lascia a un passo dall'orgasmo, a un soffio dalla verità, si addormenta due parole prima della rivelazione. Mi svuota le guance, mi accarezza solo al buio.
E io lo amo con la materia della mia incompletezza, con le parole delle mie inadeguatezze, con la mia assenza. Lo chiamo a cucire la forma del vento che mi sbatte dentro, a rivestire di carta listata le pareti delle bolle di sapone.

domenica 11 luglio 2010

È uscito fuori il latte mentre bolliva, sullo smalto bianco della cucina. Spegne il fuoco, vuota il bricco nella tazza, versa l'acqua sulla macchia.
Tre formiche esplorano lo zucchero di ieri, ancora sulla tavola. Sul davanzale s'è fermata una coccinella nera. Un ciglio nell'occhio. L'acqua dal rubinetto esce fresca, sotto la palpebra, cola lenta sullo zigomo. Estate.
La schiuma bianca s'è densificata in uno strato rugoso, la solleva col cucchiaino.
Stanotte il vento ha sollevato la tenda e la polvere ha conquistato le fessure. Un lungo capello nero sul cuscino di fianco. La porta s'è richiusa all'alba. S'è asciugata l'acqua sulle foglie del limone, ma non va via quel ricordo abbandonato.

sabato 10 luglio 2010

growing up

In un momento non ben definito, perso per distrazione, perché le cose importanti succedono sempre mentre siamo voltati dall'altra parte, succede che sei diventato grande.
La prima volta è un questione fisica. Lì è facile, il corpo fa tutto da solo, le ossa, la pelle, la carne aumentano e decidono da soli dove mettersi, che fare, se farti diventare un palo o un carciofo, una pera o un'aringa, un'adolescente felice o una complessata. Ma questo non è importante. Tutta la vita racchiusa fino all'adolescenza passa. Quella porzione di tempo che finge di essere la vita in realtà passa, lentamente, con difficoltà, ma poi resta chiusa lì.
Poi viene il resto. La chiamano linea d'ombra, ma a me sembra più una pianura paludosa, un lungo spazio di nebbia, un'indefinizione in cui continui a voltarti indietro, resti attaccato spasmodicamente ai vecchi bagagli ripetendo che se riuscissi a liberartene saresti felice. Ma non lo fai. E perché non lo fai? Perché intuisci. Senti che lasciati quelli diventerai una pallina sul piano inclinato, che la discesa/salita/curva/caduta/rialzata non avrà più fine.
E poi diventi grande. Una volta sola? Questo non lo so, è la prima volta che cresco. Ti dici che sei bravo e responsabile, che hai imparato a camminare, e sai che sei stato fregato.

E poi è così, qualcosa è andato via, e sogno la morte.
La morte ha tanti volti, è il mio amore nella bara con la faccia dei miei avi. E io che piango, da sola, con la testa tra le mani piango.
Chi è morto?
Il segreto per continuare mi sfugge, lo accarezzo, lo chiamo, ma lui è sempre un passo avanti a me.
La superficie ruvida degli occhi batte contro le palpebre e il corpo parla più della mente. Quando lui smette io smetto. È stato bravo a fare tutto da solo finora, è il caso di fidarsi.

E del resto non dire. Della spossatezza e del letto, delle mani e delle gambe, delle formiche e delle ali. Del resto non dire, tacere a sé. Tenere strette le labbra e chiusi i denti. Masticare.
Le sospensioni e le attese, le paure.
Tacere di discorsi e intenzioni nuove, della vecchia pelle caduta coi pensieri. Antiche scaramanzie, la fiducia in costruzione, lo sguardo che teme di andare lontano.

mercoledì 7 luglio 2010

aghi di pino

Anche se m'è venuta la fantasia di raccontare storie nuove, non peso più di una zolletta sollevata col cucchiaino. Le mie figlie si alzano il tanto necessario per scoppiare sul naso degli scoiattoli.
I buchi non mi fanno più paura, servono per infilare le dita e grattare la pelle.
Mi è spuntato un coccodrillo sotto i piedi, lo accompagno a cercare un nuovo fabbro in cambio di un pensiero felice su cui imparare a volare.
Ora che ha alzato la voce lo sento molto più vicino.

mercoledì 16 giugno 2010

A far dike was broken, an old man's singing his memory.

sabato 12 giugno 2010

Voglio un coltello appuntito per tagliare la superficie della realtà, dividerla in parti e disporla ordinatamente sul tavolo operatorio.
Questo voglio: affilare la mia voce, e scrivere.

venerdì 11 giugno 2010

C'è una frase in un libro di Pennac, letta tanto tempo fa, ancora appesa su una parete della memoria. È una cosa stupida, una di quelle cose sentimentali ed esagerate, frasi a effetto che si smascherano facilmente all'occhio esperto: quelle che fanno vendere i libri, insomma. Sì, in effetti è veramente esagerata e un po' mi vergogno di averla lasciata appesa lì.
Come dire, una di quelle cose che alle ragazze piacciono.
Oh, ma io nutro giornalmente l'uomo pratico che mi accompagna. Lo cresco a tazze di caffè al mattino con la luce che gli trafigge gli occhi. Fuggo dai ristoranti di lusso e neanche so dov'è la gioielleria del quartiere. È vero che mi sono commossa di fronte all'unico oggetto in oro impacchettato e regalato nell'abitacolo rovente di un'automobile, ma ho solo riconosciuto un atto coraggioso, la dimostrazione di una profonda conoscenza del mio convenzionale anticonformismo.
Ogni tanto ci ripenso a quell'immagine appesa nel cerebro, quando sento che la terra ora non gira poi così veloce. Insomma, lui l'ha scritto, e certo Pennac è uno che ci sa fare con le emozioni, non è mica l'ultimo inetto arrivato. Lui conosce i trucchi del mestiere: è uno da corso di scrittura creativa.
Così ci ripenso e lo vedo ancora correre e correre.
In fondo sono una ragazza, no?
Io ci ripenso, quando il vento si ferma e mi sembra che la terra abbia smesso il suo eterno girare.
Quando la mattina il silenzio mi invade e la sera ho le scapole infreddolite. Mi viene in mente quando ripenso al sudore e alle porte prese a spallate, quando rivedo la tenda pesante e rossa e gli occhi spalancati.
L'aria è sospesa e ferma, i treni sono lontani. Non sento rumore di passi e le girandole si sono fermate.
Allora la ricordo e mi chiedo chissà dov'è che si sono fermati i corridori?

sabato 5 giugno 2010

pioggia e boschi

Ho letto solo due libri di Murakami Haruki.
Ho letto Kafka sulla spiaggia due volte, la prima ero troppo distratta da questioni personali per seguirlo davvero, leggevo di gatti parlanti, piogge di sanguisughe e ragazze immaginarie, stanze lontane, credendo ogni volta di aver perso il filo. La seconda ero così immersa in altre questioni personali da cui volevo fuggire che ho camminato con Tamura Kafka in un bosco profondo, ho parlato coi gatti e ho lasciato che ragazzi immaginari mi prendessero per mano e mi salvassero.
Ora ho letto Norwegian Wood, e per situazioni personali l'ho letto solo in tram cercando nei tempi morti lo spazio necessario a incontrarlo.
Ne deriva che non so parlarne oggettivamente, ne deriva che leggere Murakami Haruki è una questione personale. È come entrare in un mondo che ci cammina sempre affianco, come entrare in quella solitudine che è il centro più vero di noi.
Apri il libro, inizi a leggere, con leggerezza. Lentamente una pioggia sottile ti avvolge, di quelle che restano impigliate tra i capelli, sulla superficie dei vestiti. Quando richiudi sei completamente bagnato come se avessi dragato un fiume. E ora sono arrivata sulla sponda opposta.
Norwegian Wood non è costruito per scaglioni su storie indipendenti che lentamente si intrecciano seguendo il corso della loro predestinazione, come è per Kafka. Questa è una storia – d'amore, la definisce l'autore, ma io non credo nelle storie d'amore, tolto lo scarto per cui tutte possono esserlo. Parla di solitudini che si incontrano e che si riconoscono. Parla di essenza, di silenzio, dei vuoti che costituiscono l'uomo, ingannato nel credere che il suo senso sia nel materiale deperibile che tiene insieme quegli spazi ampi.
Pochi personaggi, tutti protagonisti, ognuno con una storia, ognuno mezzo e fine del protagonista, Watanabe, che arriva ai vent'anni dopo aver perso le sue persone fondamentali.
È l'unico a non avere una storia precedente a quella che si costruisce attraverso le figure presenti, è l'unico che cammina totalmente all'interno dello spazio del libro, che cresce lentamente mentre leggiamo, che capisce la responsabilità che vuol dire vivere: «Devo pagare il prezzo per continuare a vivere».
E scrive. Scrive lettere. Mantiene i fili della comunicazione con le assenze che affollano la sua esistenza: «Scrivendo mi sembrava di riuscire a tenere insieme la mia vita che altrimenti sarebbe crollata spargendo i pezzi da tutte le parti».
Ma l'ho detto, non so parlare di questo libro perché divento retorica, perché è un fatto personale. Ogni cosa è lo spunto per altro, ogni personaggio è un mondo e in tutte queste esistenze si trova qualcosa di sé.
Ora non ho bisogno di ragazzi immaginari che vengano a salvarmi, non mi servono corvi parlanti né sagge signore imperfette a tirarmi fuori dalle stanze oscure, ma ho voluto fare ugualmente questo viaggio.
Questo post è personale. Forse perché ora mi cammino un po' più vicino, perché qualcosa si è placato, perché esco dagli antri e provo a non aver paura di essere fragile e sentimentale. È un fallimento per la scrittura, ma è altro per me.

Norwegian Wood

mercoledì 26 maggio 2010

Nostalgia della nostalgia che mi legava i piedi e spingeva in avanti. Che bagnava la bocca e seccava la voce, che accarezzava me lasciandoti intatto.
Camminando nell'acqua che univa i tempi, sciolta nel vento chiuso oltre i vetri. Ora le parole riposano come gattini, le guardo grattare il seno della madre.

vuotitudine [della parola]

Tiro su il mio guscio di volute ossee per conservare nella migrazione il vapore residuo delle ultime tiepide ore che si sgretolano al suono della sveglia. Sottile luce sul soffitto, palpebre umide di bavosità residua.
All'orologio sul comodino restituisco un'espressione di impaziente rassegnazione e lui incredulo risponde col suono di un avviso rimesso il giorno prima per le mie speranze rinnovate. E così mi alzo infilata in quella protezione di saliva notturna e ricordi onirici ancora ostile e refrattaria in attesa del caffè.
Ma il giorno chiede che ci si versi sul tavolo da gioco e il mio guscio resta poggiato nell'alcova personale in attesa del ritorno, ci vediamo dopo il tramonto.
Fuori, nuovo abito di necessità. Si lascia il branco per trovare il sostentamento necessario alla prole e all'individuo, per pagare le bollette e mettere a tacere la rossa di un metro e cinquanta che al cinque del mese mi aspetta per riscuotere il tributo di un alloggio in subaffitto. Tra pali e cemento, col passo felpato morbido e scattante nell'attesa del tram iperaffollato. I denti in mostra in una parvenza di sorriso simpatetico che richieda la restituzione di un riconoscimento tra simili: siam qui con gli occhi gonfi a respirare smog e tutti vorremmo essere altrove, non basta ad essere solidali?
E in ghigno si tramuta la dentiera affilata, per disossare il progetto delle prossime otto ore infilate.
Ma non basta camminare, non il passo della leonessa all'attacco, né quello strisciante della processionaria che annusa la coda del vicino per impilarsi nella giusta direzione, forse la iena che aspetta il momento giusto per addentare una quasi carcassa all'orizzonte, o il condor, quando ormai la putrefazione avanza e anche quei vermicelli nel becco danno la giusta soddisfazione ad uno stomaco affamato e senza pudore. Il guscio lasciato a casa si trasforma in reazione al dondolio del percorso, un continuo rinnovarsi dell'equilibrio sul filo delle ore giornaliere.
Diciotto e trenta, con caffeina da intervallo, sigarette già bruciate sulle labbra, recriminazioni e ingiustizie ingoiate, ritrovo i miei compagni di spostamento. Gli occhi sempre gonfi, che guardano già al letto, traboccanti di lettere in bit e luci al neon. Il silenzio del viaggio, la stanchezza nelle tasche.
Viste da quassù quelle luci galleggianti sono scintille che rimbalzano sopra la salsedine liquida della mia immaginazione. Sale uno strillo sbattuto in faccia al vento e non so trattenere il dubbio e l'ironia: avrò scambiato per il mare questa discarica in liquefazione?

sabato 22 maggio 2010

«Così, dice lei, voltando leggermente la guancia, che era contro quella di Don Juan, così siete stato l'amante di quella donna, e questo appena due mesi fa – e questo lo confessate».
«Cara… lo sapevate».
«Lo sapevo, e non lo sapevo. E non mi dite male di lei, per rimediare!… E soprattutto non ditemene bene!… E non state zitto in questo modo!».
Don Juan sorride. La baronessa si allontana da lui, appoggia le pantofole contro il legno del canapé e gli prende la testa tra le mani. «Ah come sono infelice, mormora, ah come sono infelice, si dice, ah come sono da compatire!» proclama. E nello stesso momento i suoi occhi diventano piccoli e scuri.
«Così, io speravo in voi, io vi ero fedele. E in quel mentre voi… ah com'è ingiusto, e come vorrei aver fatto come voi! Avrei dovuto offrirmi alle braccia di tutti quelli che mi desideravano, prendere uno, due, tre, sei amanti!».
Don Juan è tranquillo, la baronessa ci sa fare anche nelle scenate. Ma l'occasione è bella.
«Puttana» dice freddamente.
«Che dici? Che dite?».
«Dico puttana, Signora, e santa puttana. Sei amanti! E figlia di puttana, e madre di puttane a venire! Santo Dio! Sei amanti!» e Don Juan aggiunge tutto quello che può di sconcezze a questo rosario, e grazie alle sue frequentazioni ne trova di notevoli.
La piccola baronessa è raggelata. L'indignazione che sale non ha il tempo di emergere, soffocata dal piacere che ha nel sentire. Gli occhi smarriti si riaccendono, il ditino va all'angolo della bocca. È grata a Don Juan del piacere che le dà. È veramente bello.
Ondeggia e si crogiola.
Scoppia in una risata incantevole. Don Juan sta per ridere anche lui, ma trova di meglio: incolla l'orecchio proprio di fronte alla piccola bocca, e sente le perle tintinnanti scuotere profondamente il cervello.


H.P. Roché, “Don Juan e la baronessa” in Don Juan

domenica 16 maggio 2010

accanto

È ancora lì. Si poggia al muro dall’altra parte dalla strada, ma riesco a vederne lo sguardo, è rivolto alla mia finestra. Stamattina il cielo è nuvoloso, ma non è poi un male. Avevo deciso che sarei uscita, ma con lui dall’altra parte della strada non mi sento al sicuro. Mi allontano dalla finestra e vado a preparare la colazione. I piatti della cena sono ancora lì, la bistecchiera sporca, i bicchieri, la padella in cui ho cotto la verza. Lavo la caffettiera e accendo il forno, mentre preparo il caffè metto a scaldare una brioche, presto il profumo invade la cucina. Intanto lavo qualche piatto, giusto per fare spazio nel lavandino.
Prendo il libro che stanotte ho lasciato sul letto, intanto il caffè esce, porto lo zucchero, la tazzina, la brioche ormai calda, mi siedo, bevo il caffè, mangio, leggo qualche pagina.
Dopo aver sparecchiato vado di nuovo alla finestra: sempre lì. Magari se iniziasse a piovere si sposterebbe.
Oggi mi piacerebbe visitare qualche mostra, così per avere un motivo che mi faccia prendere il tram e allontanarmi dal quartiere. Forse se mi concentro su altro riesco ad ignorare la sua presenza.
Intanto faccio la doccia, calda per rilassare i muscoli della schiena, a stare tanto seduta sento che la tensione si accumula tutta lì. Poi do un getto d’acqua ghiacciata sulle caviglie e risalgo lungo le gambe, fa bene alla circolazione. Ma mi sento ancora un po’ intontita, così dirigo l’acqua fredda anche sul viso, sul petto, sulle spalle. Sobbalzo, ma dopo è come se respirassi meglio, prima i polmoni che si bloccano per un attimo, la bocca aperta in un’espressione di sorpresa e poi l’energia che pervade il corpo.
Torno in camera e mi vesto, accendo il computer, controllo: sempre lì. Guardo le mail e mi informo sulle mostre che ci sono in città: ben poco direi.
Ha iniziato a piovere, le rose di fronte alla finestra resistono ai colpi, ma qualche petalo cade.
Così resto al computer, guardo un po’ di siti, continuo il lavoro di ieri.
Il telefono non squilla, ma non me ne preoccupo, è un po’ che ho smesso di darmi pena. Non avere aspettative, sono qui e va bene.
Però davvero non lo so cosa vuole da me. Ieri gli ho parlato, pensavo bastasse ad allontanarlo, invece resta nei paraggi. Prima di addormentarmi gli ho anche scritto, l’ho fatto nella mia mente, una lunga lettera.

Mi alzo dalla scrivania, vado alla porta, la apro e lo guardo. Lui capisce, senza fretta si muove, attraversa la strada ed entra in casa. Si siede sul letto, io torno alla mia postazione e lui resta lì a guardarmi.

Io lo so cosa sei venuto a fare, ma penso anche che sia arrivato il momento di darmi una vacanza.
E dopo la vacanza?
Dopo potrai tornare.
Ne sei certa?
Se ce la farai.
E cosa ti fa credere che le cose saranno cambiate?
Lo scorrere del tempo.
Il tempo non scorre per tutti nello stesso modo, a volte si ferma.
Stavolta scorrerà, dovrà adeguarsi al meccanismo esteriore.
Sei ingenua.
Sono fiduciosa.
Continua pure quello che stavi facendo, non ti disturberò.

Per un po’ riesco ad ignorarlo, mi concentro nel lavoro e sparisce dalla mia vista, inutile illudersi che sia andato via, ho già imparato che non basta così poco. A volte riesco a mettere una distanza quando esco, meglio se sono da sola. È come se fosse una questione di movimento fisico, più che cerebrale. È importante camminare e farlo tanto, anche stancarsi va bene, pensare alla fatica del corpo. La malattia no, non è un buon modo. Sotto effetto della febbre le difese si abbassano e lui mi si stende accanto nel letto, poggia un braccio sul mio petto e resta così, finché non riesco di nuovo a muovermi.
Ho fatto un lungo viaggio portandolo con me. L'ho tenuto stretto per paura che andasse via, abbiamo passato così tanto tempo insieme che non saprei liberarmene.

Lo fai per me.
È vero, tu mi guardi e io mi muovo.
E se andassi via?

La vita sarebbe una sequenza di istanti senza pausa, senza più girarmi per controllare se è ancora lì, e sarei sola davvero. Ma continua a esserci.

Potresti avere quello che vuoi.
Potrei davvero averlo?
Solo finché non distoglierai lo sguardo per cercare dietro un'altra finestra.
E se uscissi?
Puoi farlo.

Sì, posso farlo.
Sono tornata ora da un lungo viaggio, per essere qui.
Persa per la necessità di perdersi, e poi ricordare.

Da quanto sei qui?
Ci sono sempre stato.
Mi hai aspettata. E mi cercherai quando non tornerò?
Mi porterai con te.

È vero, l'ho sempre fatto, il sedile affianco al mio l'ho conservato libero per lui.

venerdì 7 maggio 2010

La prima volta è stato solo un leggero solletico dietro la nuca, nascosto sotto i capelli. È salito lentamente lungo l'osso occipitale e poi ha trovato una postazione momentanea dietro l'orecchio. Lì è rimasto, per un po', solo il tempo di farsi dimenticare.
Aspetto il tram, arriva da lontano, ne metto a fuoco il numero: 1. Uno?? Una piccola macchia nera nello sguardo mi copre la visuale… 19, sì è il mio.
Un punto oscuro sugli occhi, un riflesso d'ombra, un impercettibile ostacolo alla vista colato lungo l'orbita e sceso dietro lo zigomo.
Sono tornata a casa, quella familiare. Mentre trascino il mio borsone lungo le dodici rampe di scale li sento: passetti ticchettanti dietro lo sterno, una fuga impazzita di eserciti in ritirata: fuggire, fuggire! Andare via di qui!
Chi siete?
Le formiche sono in grado di trasportare un peso svariate volte superiore a quello del loro corpo. Portano oggetti grandissimi con difficoltà evidente, ma non si fermano mai.
Piccoli granelli neri impilati in processione ordinata, dal punto A a quello B, da quello B di nuovo in A, sempre, per il giorno intero. Con le loro testoline spingono invano la parete che le racchiude per aprire un varco: fuggire, fuggire! Andare via da qui!
Mille zampette tamburellanti, passi ordinati, centinaia di vibrazioni al secondo, per riempire ogni attimo.
Un tumulto franoso, un movimento perpetuo a dissolvere i muri a secco dei miei ricordi avanzati. Piccoli eserciti in ritirata, corse impazzite, richieste di soccorso: fuggire, fuggire! Andare via da qui.

lunedì 19 aprile 2010

going to

Di nascosto per non spaventarci, in silenzio per non ferirci, da lontano per non scontrarci. Con la luce necessaria per non perderci di vista, con le mani a cercare gli avambracci, con i piedi per scaldarci.
Con le suole di ovatta, senza dircelo, guardando altrove.

giovedì 15 aprile 2010

5&1/2

È stato un colpo di vento questa mattina a farle sobbalzare le palpebre. Un rumore sordo e improvviso uscito dai suoi sogni. Gli occhi aperti nel buio e le orecchie tese a cogliere una nuova avvisaglia meteorologica sulle prospettive future. Niente. Silenzio costante. Con quel mutismo atmosferico diffuso dalle persiane, ha tirato via il braccio semi addormentato da sotto la sua schiena e ha aspettato. Non il sonno, che quello ormai era fuggito verso i contenitori di speranze non riciclabili fuori dal portone di ingresso. Aspettava che la nuova ondata arrivasse, e non s'è fatta attendere.
Non le serviva accendere i portatori informatici di notizie per scoprire che la situazione era infognata in uno stagno congelato di velluto solido, le bastava quel po' di senso della realtà ritornatole proprio allora, alle cinque e mezza del mattino.
Silenzio. Silenzio e lui che dorme al suo fianco.
Ma sì, preoccuparsi di che? Quanto ancora avrebbe potuto restare lì? Quanto ci avrebbero messo gli esattori dei sogni a scoprire che in fondo lei era in debito e avrebbe dovuto restituire tutto il trafugato?
E così si gira a guardarlo: bianco. Lui è bianco come un letto di neve, lui splende col suo mento volitivo come i protagonisti delle storie che umidificano le notti delle signore di mezza età. “Volitivo”, fa pensare alle pale eoliche. Eppure quel mento è una valle solida su cui camminare, è la promessa di una risolutezza celata, di una forza trattenuta.
Il rumore di una porta che si apre, una che si chiude, un rubinetto aperto. Il coinquilino che si avvia alla sua scrivania e lei da una privilegiata posizione di nullafacenza a godersi lunghe ore di pigrizia inoccupazionale all'ombra di un conto in rosso. Non si sentiva poi così fortunata.
Tra un po' sarà giorno e il sole potrà nascondersi dietro le nuvole di aprile. Un sogno, il mare, per vedere nell'acqua che si agita i suoi stessi pensieri arrotolati, per sentire la compagnia di una tempesta.
Con le dita gli sfiora la schiena, un bacio sulla sua spalla, lui che si gira, nel sonno la abbraccia. Uno dei suoi momenti preferiti: vederlo allungarsi verso di lei nell'incoscienza dormiente, come se fosse un bisogno istintivo. Cercarla.
Ma c'è il soffitto che fa a gara con quello stesso pallore, un soffitto pesante che offre migliaia di spunti di riflessione alla sua mente indaffarata, che compete in attrazione per la sua forza ipnotizzante: lasciare lo sguardo posarsi e trovare solo calce.
Poggia il viso sul suo stesso cuscino, ne aspira l'odore.
Come sarebbe tutto perfetto se potesse crogiolarsi nei soliti problemi relazionali. Invece lui è lì, lei ne gode la momentanea presenza, ma l'assalto del giorno sottrae calore alle ultime ore. Un lavoro, lì fuori, ci sarà? E dove? Quando?
Pensieri banali, tormentone del decennio, noia, ripetizione.
Il suo senso estetico si ribella, la sua intelligenza si tedia, la sua curiosità fa i capricci.
Poi pensa che sta arrivando il giorno, e che sarà un bel giorno, una distesa di ore nuove per trovare soluzioni inaspettate, possibilità in attesa di Colombo. E si gira di nuovo, con la schiena sul suo petto, ripensa alle sue luminose previsioni: “Pollyanna di merda!”.

mercoledì 7 aprile 2010

alici

Torniamo da Roma, Milano, Bologna. Riempiamo i treni da Firenze, Parma, Torino. Riversati nelle stazioni, abbracciati ai ricordi, carichi di fumo e tensioni osteoarticolari. Con la tendinite, con la spina dorsale curva e gli occhi affaticati. Arriviamo qui e ci riversiamo nelle strade, sul lungomare, nei vicoli stretti, a farci sbattere in faccia il vento salino, arrampicati sulle dune, stravolti a tavolini di campari e birra.
Nella bottega di Peppe Sciolino che sa di piedi e sudore, a decifrare la lingua dei pescatori a tuffarci in un piatto a tre euro. Stavolta abbiamo aperto quella porticina nascosta e seguito il percorso nell'isola ritrovata che c'ha ridate a noi.
Con la perfezione di un viaggio organizzato nell'inconscio, ho chiuso il cerchio strappando voce e polpacci nella Città Vecchia.
Mente e corpo, tralasciando un piccolo scarto, tornano a camminare in sincronia. Il cuore sempre a parte, con le sue cronologie inverse.

giovedì 25 marzo 2010

escape the beast

Sul letto due cadaveri, hanno la stessa faccia. Le palpebre cucite con fili dei miei capelli, a punti stretti bucati dall'ago. Il giorno spunta e la città aspetta. Non è un mondo di libertà, finché ci impoveriremo e rattristeremo sulle nostre incapacità non sapremo fare meglio di così. Ingoiando sale ho capito dov'è l'errore e ho trovato la pietra incastrata. Ma i due cadaveri non si muovono, li ho inchiodati al letto con le mie ossa, martellate su un errore di calcolo.
In una vita sbagliata, proiezioni di una scelta avventata, conseguenze di una svista, morti per caso, caduti dalle mani.
Ma l'errore è vecchio, gli anni si accoppiano sul mio calendario e il figlio scambiato nella culla non si trova più.
Non è ora e qui che piango. Io piango una morte vecchia di marmo e polvere rossa, io piango una morte viva che ogni giorno rinnova il suo sacrificio.
Chiederò all'oracolo il segreto per attraversare una nuova distesa di ore, taglierò le labbra con il ghiaccio e resterò seduta affianco al mio corpo, aspettando che tornino a finirmi.

lunedì 15 marzo 2010

die zeit

Penso che per un po' mi fermerò. Le parole non trovano più la forma indispensabile per uscire, ora l'urgenza è in altri luoghi. Ora le parole servono per vestire concetti, per ordinare il caos, per parlarmi, per raccontarmi e spiegarmi. Ora quello che dico deve restare tra le dite, dalla penna alla pagina, forse ritrovare la scrittura fisica, quella che macchia di inchiostro i polpastrelli, quella che riverso sui miei fogli color avorio durante gli attraversamenti sul 19. Quello che scrivo ferma su una delle rare panchine romane, che in questa città ci sono tante fontane ma pochi spazi per fermarsi, pochi angoli riparati per rullare una sigaretta e scegliere la canzone adatta da somministrare in cuffia.
A volte la scrittura diventa ansia di comunicare, vuole dire troppo e non sa nascondersi. E, quando si decide che è finito il tempo di fuggire, i pensieri escono fuori di getto irrequieti, ma poco interessanti.
È arrivato il momento di riprendere le parole nella bocca e succhiarle, di stringerle e farle asciugare. Ora è il momento di parlare e aprire i pensieri, mandarli in giro a recuperare significati nuovi, lasciare che si aprano come tessuti lisi, che si leghino ad altre trame, e poi riprenderli dentro e rammendarli.
Ora si cancellano i sostituti, si richiamano i sosia, si distruggono gli avatar. Ora ci si mette la faccia e il dolore, senza nascondersi. Ma le parole hanno bisogno di buio e silenzio, di sangue vero, quello che si incrosta sul cuore, quello che va grattato minuto dopo minuto.
Ora le parole sono quelle delle mail lasciate in bozza nella casella di posta, negli sms non inviati, nelle simulazioni di discorsi. Quando la notte mi sveglio e mi racconto storie, quando mi torturo, quando immagino gli scenari peggiori, quando vedo solo spalle e abbandoni, quando decido di essere sincera. E in questi momenti ripenso a chi mi dice che io so lottare, a chi dice che mi sceglierebbe come compagna per affrontare i vampiri.
Quando si attraversano percorsi lunghi e oscuri bisogna affidarsi a tracciati pregressi, a quelli che siamo riusciti a disegnare nei momenti di lucidità, a quelli che i nostri aiutanti hanno disegnato per noi.
Sono in un campo magnetico, sento il rumore dello strappo, sento le forze di attrazione e repulsione lottare. Mi chiedo se è poi vero che in fondo vicinanza e lontananza non sono altro che misure geografiche, so che la paura è solo un cedimento della mente e che temere la perdita è una debolezza dello spirito.
Resto in quello che non so, mi costruisco su ciò che manca, riempio le assenze e cerco il silenzio e l'oscurità di nuove parole, idrocarburi da bruciare per illuminare un'altra mattina.

...con il mare negli occhi...

water#1
water#2
water#3
water#4

domenica 14 marzo 2010

disarcionati

Ho amato un ragazzino intimidito che si nascondeva dentro la pelle del suo giubbotto. Ora è un uomo impaurito che si nasconde dietro un accento del nord su lunghe vocali strascicate. Ho amato un diciassettenne indurito che temeva di guardarmi dritto in faccia, ma non fuggiva le sue paure. Ho amato un uomo forte che ha dimenticato la tenerezza e la fiducia, amo ancora il suo maglione sformato e la scrittura appuntita, il posto tra le sue braccia e i capelli sulla nuca. Ho amato donne meravigliose, le ho seguite e accompagnate, le ho abbracciate e consolate mentre ci scambiavamo i vestiti e reggevamo la fronte. Mi sono persa e ritrovata, mi sono strappata per seminare brandelli, mi sono bruciata e ho respirato ogni volta di nuovo. Ho amato uomini che mi hanno toccata solo con la mente, ho tenuto le loro mani mentre sul lunotto scendeva l'acqua, li ho amati senza muovere le labbra. Ho amato un corpo illuminato dalla mia fantasia, sottratto alla quotidianità dalle mie aspirazioni artistiche, stuccato su un affresco per dimenticare la monotonia.
E ora mi dicono che non si ama più, perché ora abbiamo paura.
Ora mi dicono che bisogna inventare nuovi discorsi per non parlare veramente. Ora mi dicono che bruciarsi e giocarsi fa diventare seri: ma questi mentono!
Noi abbiamo sempre riso. Ci siamo fatte gli addominali tra gli spasmi dei denti, noi passiamo ore su letti sfatti a rovistarci dentro. Arrivano voci di generazioni impaurite, raccontano che negli anni zero i rapporti sono a progetto e le mani si stringono con l'Amuchina. Dicono che dobbiamo conservarci, metterci da parte, versarci in banca. Dobbiamo crearci un avatar che ci permetta di restare dove siamo senza fare fatica.
Ma siate marinai!
Fatevi bagnare dal mare ghiacciato, fatevi venire le bolle sotto i piedi, abbiate fame. Affrontate il mare aperto, perdetevi, Dio santo, perdetevi! Vomitate parole, vomitate emozioni, buttate fuori, alleggerite gli intestini. Create cadaveri leggeri, spogliatevi, vendetevi, regalatevi, passatevi di mano in mano. Fatevi mangiare e digerire, fatevi leggere e buttare.
Siate marinai, createvi delle rughe originali, delle cicatrici invidiabili, marcitevi i denti e seccatevi la bocca. Deridete la paura e l'avarizia, alzatevi in piedi di fronte a una donna, sollevatele la gonna, baciatele la mano. Tiratele i capelli, prendetela di spalle, soffiatele nell'orecchio. Ditele che la amate, mangiatela, bevetela, regalatele la vostra voce, fatevi ponte per lei, strada per lei, barca, brocca, vino. Ditele che non la farete andare via, ditele che non la porteranno via da voi. Regalatele un'alcova, sciogliete i suoi lacci e datele la libertà.
Come colomba, lasciate che torni libera a voi.

linee

Porto un gessetto sempre con me, devo fidarmi delle mie disposizioni. E così nei momenti di lucidità segno confini, traccio geografie, scrivo cartelli autostradali. E bisogna scrivere. Scrivere ed essere profondi, scrivere e parlare, e guardarsi con gli occhi bene aperti. Bisogna dire e dare forme a quello che vediamo, con attenzione, cercando di restare fedeli ai contorni, guidando la mano, tenendo a bada la fantasia.
E parlando mi spoglio, e spogliandomi acquisto forza, e con la forza divento altro, e sono già via.
Nuda e senza più nulla da nascondere perché accecato dal bagliore della mia pelle tu non sappia più colpire.

lunedì 8 marzo 2010

in vana mente

Mi perdo nel cercarti

8

Se si potessero identificare i punti di inizio e di fine si potrebbe dire che ogni volta si ricomincia daccapo. E si potrebbe anche affermare di non voler ricominciare più, di volere un punto, di segnare una linea, di evidenziare un qualsivoglia confine di demarcazione che ricordi lo spazio in cui non bisogna più mettere piede. Si potrebbe disegnare un cartello di avvertenza: “Off limits”, “Non oltrepassare”, “Terreno avvelenato”. Servirebbe a ricordare, servirebbe a non ripetere, a cancellare le reiterazioni, a eliminare la recidività; sarebbe facile andare da un'altra parte, per esclusione, anche solo per quello. Ma tutto è un unico campo, non abbiamo iniziato e non finiamo, senza capo né coda, in balia del vento che spazza via il segno dei miei passi già fatti.

sgocciolo



Se

esistesse


un



mondo




dentro





cui






cadere







dietro








le









palpebre











fin











dove












arriverei?












«My mind feels like glass
Ready to be smashed
»

venerdì 5 marzo 2010

Se ci fosse acqua, qui ci fermeremmo a bere.
Se ci fosse spazio ci stenderemmo sulla terra bruciata. È un paesaggio nero di scogli e di fichi d'india, arrivati nel mezzo dell'ora contraria all'incrocio dell'ultimo avamposto nazionale. Una vipera attraversa cinque metri d'asfalto, la guardo con apprensione, che la prima serpe che abbia mai visto vivere non sia la prima che devo veder morire.
I sandali friggono la pelle dei piedi, stasera ci schiacceremo le bolle nell'aria fresca di un seminterrato in prestito.
Estranei di luoghi che fanno bollire il sangue. Un richiamo più forte della nostra memoria. Il niente.

mercoledì 3 marzo 2010

Lo strappacuore

Boris Vian, Lo strappacuore, Marcos y Marcos

Leggere Vian è come farsi portare in giro da un cicerone beffardo e irriverente, che descrive paesaggi incantevoli e surreali, ci confonde e si prende gioco dei concetti convenzionali di spazio e tempo.
Giacomorto arriva in un paesino della costa, mentre passeggia vicino al mare sente delle urla arrivare da una casa vicina. Entra e trova Caterina partoriente, infila i guanti e la assiste. Il risultato delle lunghe ore di travaglio sono tre gemelli, anzi dei tremelli, anzi no: due gemelli e un singolo.
Un libro costellato da invenzioni letterarie e continui giochi di parole, traslitterazioni, neologismi. Ma questo si sa, questo è Vian. A volte quasi gratuito, ci si domanda sempre se sia geniale o se solamente si prenda gioco del lettore, forte del potere conferitogli in quanto creatore della storia, dio di quel mondo immaginario. Ma se l'inventiva, a volte solo estetica, si libera nelle descrizioni e nelle trovate di nomi originali, gli avvenimenti, i personaggi e i pensieri sono metafore per decostruire le convenzioni più radicate, per mettere alla prova gli automatismi del pensiero comune.
E così i sacrifici e le paure esagerate dei Caterina, tormentata dall'ansia che ai suoi tre porcellini possa accadere un incidente, sono la testimonianza del suo amore materno, e quanto più il suo pensiero degenera e lei rinchiude se stessa e i figli nella gabbia di un autolesionismo ingiusto tanto più dimostra di essere una buona madre.
Intanto Giacomorto osserva. Si trasferisce in quel paese crudele, dove gli abitanti pagano in oro per essere liberati dalle loro vergogne, dove il prete fa prediche su una religione che non è bisogno ma lusso, perché a Dio non interessa sfamare il proprio popolo, dove i ragazzini vengono sfruttati e insultati come se fosse la cosa più naturale del mondo e i vecchi venduti all'asta in una sadica parata di piazza. Giacomorto osserva e riflette, lascia che abitudini e pensieri lo attraversino, cerca di riempirsi, come l'uomo di latta è convinto di essere vuoto senza emozioni e così dalla sua condizione di diverso si indigna e stupisce per cancellare subito ogni sua preoccupazione: cosa importa a lui che non prova sentimenti, in fondo sono solo comportamenti da uomini.

martedì 2 marzo 2010

etimologia di un'origine

Sono nata tra due mari, tra quello grande e aperto, ponte per l’Africa, porto per stranieri, e quello piccolo e chiuso, dove si coltivano i mitili come fosse un orto, dove si affacciano gli alberi di clementine, dove andiamo a bagnare i nostri occhi, dove il cielo cittadino si specchia rosso di vergogna. Dove l’umido bagna le mani e i capelli, e poi la tramontana arriva a seccare la pelle, lisciare le teste e asciugare i pensieri affogati nella condensa.
Nella “città del tramonto”, dove il mare porta gli oggetti a morire sulla sabbia, come fanno i delfini, come nello stemma originario.
Qui si muore sotto il rosso di un cielo avvelenato, si sosta intrecciando i capelli, si scava il futuro, si respira rabbia e desolazione. Da qui si va via e qui si torna a tramontare, tutti ci tornano, perché il rumore che fanno quei due mari non se lo può scordare nessuno.
Gli attacchi arrivano da destra e da sinistra, non c’è sosta né vero riposo. Allora ti indurisci e lotti. I pescatori hanno la pelle scura e i calli sulle mani, gli occhi consumati a forza di guardare le onde e le labbra secche di sale.
Cresciuti in una terra fertile di aridità, alberi cementati, piedi inquieti, occhi schivi e parole morsicate.
Il centro storico che è un’isoletta inconsistente rispetto all’estensione urbana, come il cuore di un lupo nel corpo di un orso, madre consumata dall’allattamento di una prole troppo estesa, vorace.
I suoi figli hanno lo sguardo bipolare, da un lato all’altro della loro casa vedono la tempesta violentare la superficie del grande mare e la brezza fare slalom tra i pali delle cozze. Il Mar Piccolo è quieto, solo a volte si increspa, ma resta fermo. Cambia colore, è rosa e grigio, sa essere blu intenso e bianco d’argento. Il Mar Grande è mare aperto, sbraita e sussurra, porta odori lontani.
E come può essere il cuore di quei figli? Sbattuti tra le onde, nati su case galleggianti, con lo sguardo sempre oltre la finestra.
Esiste l’alba a Taranto, si può vedere dal mare chiuso, quello che può essere un lago, ma quando la mente cresce da bambina negli stretti vicoli dell’isola e poi si affaccia su tutto quell’orizzonte bagnato, allora diventa audace e arrogante: mare, è il mare.
E su quel mare piccolo che si apre a est il sole sorge per chi lo vuol vedere, ma non potrebbe essere altrimenti. Non può mancare la vita in un posto dove c’è tanta morte.

lunedì 1 marzo 2010

Quello che mi manca è lo spazio per la rincorsa, un orizzonte per i miei occhi, le tue mani sulle mie ginocchia. Non ho le redini per i miei cavalli né le lucciole nei capelli, ma ho trovato un sassolino nuovo da tenere sotto la lingua per smettere di balbettare.
Lucidata a specchio per riflettere un po' più a fondo sollevo il lenzuolo e riconosco il corpo.
Ho colto la mentuccia selvatica per rosolarti a dovere e servirti alla tavola degli impiegati del buonumore: sbucciato e disossato sei molto più appetitoso.

domenica 28 febbraio 2010

D.

L'uomo perfetto è caduto dentro una donna troppo profonda.
L'uomo non ha saputo ascoltare ancorato al limite del suo dna.
L'identità è variabile e molteplice, chi lo sa lo porta in sé come una profezia annunciata alla nascita.
La nostra identità moltiplicata, addizionata, sottratta. Gli uomini non possono ascoltare, hanno paura delle parole fuori dalle righe, scritte sui bordi, incise sugli avambracci.
Ho dormito al fianco della luce più oscura che conosca e lei sola ha saputo cancellare le piccole escoriazioni.
La mia storia mi troverà, me l'ha promesso lei, troverò una storia.

venerdì 26 febbraio 2010

al nord

Abbiamo destini liofilizzati da conservare nei barattoli riciclati, stracciati e stiracchiati sotto le gambe delle sedie, buttati dal finestrino delle tre di notte. Desideri di diciotto centimetri sciolti all'alba per in nostri parenti a pranzo. Stanotte restiamo svegli e aspettiamo la condensa alle finestre, per ghiacciarci gli alluci e dirci che stiamo tutti bene. Tira fuori due parole dalla memoria e rivendimele per nuove, le bugie dette come fossero preziose, i nasi lunghi, i respiri tagliati. Fingerò di crederci, fingerò che non mi importi, togliti l'ultimo sorriso e guarda nei miei occhi. I pinguini mi camminano affianco e indicano la strada che mi porta via, ma tu ormai dormi e le tue spalle spariscono sotto le coperte all'uncinetto.

È pieno di mosche il mio letto
di sali da bagno e libri per scolari.
Ho bagnato le lenzuola con acqua di lillà
strizzata dagli occhi messi ad asciugare.
Arriva da lontano la tua voce
giocata a carte col signore del tramezzo.

Nella cartina non trovo più il mio Sud
i sogni grattati con le unghie
il pane lasciato ad ammuffire.

giovedì 25 febbraio 2010

«Vogliamo libri scritti per noi che dubitiamo di tutto, che piangiamo per un niente, che sobbalziamo per ogni minimo rumore alle spalle»

Laurence Cossé

lunedì 22 febbraio 2010

venne la notte

«Dopo tanta speranza, questa fine.
E ora devo andarmene, mentre gli occhi si oscurano;
e perché vuoi che ti dica che tu esisti
se più non ti trovo.

Io non ti trovo più. No, non in me.
E non negli altri. Non in questa pietra.
Io non ti trovo più. Io sono solo.

Solo con tutta la miseria umana
che tentai di alleviare nel tuo nome,
di te, che non esisti. O vergogna infinita…

Dopo, si raccontava, venne un angelo –.

Perché un angelo? Ahimè, venne la notte,
e sfogliò con indifferenza gli alberi.
Nei sogno si agitavano i discepoli.
Perché un angelo? Ahimè, venne la notte»

R.M. Rilke, Il giardino degli ulivi


e lontano a volte vuol dire morte!

sabato 20 febbraio 2010

È con il sesso che mi comunica la sua devozione, posso entrare ovunque. Mi guarda, sorride. È lì, mi dice sono qui, mi dice che posso fare quello che voglio. Ha la pelle bianca, sembra rilucere sul mio letto oscuro, nei miei pensieri senza luce. Il suo calore, la pelle, il suo corpo morbido. Affondo la faccia nella sua pancia, la pelle mi copre le narici, non so più respirare. La sua mano sulla nuca, tra i capelli. La voglio. Voglio entrarle nella pelle, trasformarle i pensieri, sentire il suo grido. Il buio mi è entrato dentro. Con gli occhi chiusi affondo la testa tra le sue gambe. È dolce e profumata, è profonda e calda. Lei è lì che mi aspetta e non riesco a reggere la sua attesa, non posso che tradirla. Mi chiede di continuare, ma non mi muovo, la guardo. I brividi sulla sua pelle, si contorce, vuole vuole di più. Ma io non ho di più da darle. Le mie mani, la bocca, il sesso, questo posso darle, e che lo senta. Che senta la sua solitudine.
Le metto una mano sul fianco, la faccio girare, la sua schiena, i glutei. Le infilo un dito tra le gambe, cerco un varco, le sue aperture. Le lecco la schiena, la mordo, scendo lungo le gambe, risalgo, di nuovo al centro, di nuovo nel suo sesso. Mi bagna la bocca, il naso, il mento, non posso farne a meno. Faccio scivolare una grande quantità di saliva sull'ano, la bagno, la apro, le entro dentro.
Ora le faccio male, ma lei si sottrae solo un po', si sposta un attimo e subito mi si rimette sotto ubbidiente. Prende quello che le do, si apre a me, lei non vuole deludermi. Lei è forte, lei sa accogliere a tenere, lei mi stringe, ma io ho un braccio solo. Le brucia, vuole che finisca in fretta, ma io vado piano. Mi muovo lentamente, l'attrito le è insopportabile, ma io continuo così, piano, quanto resisterà? Il mio gioco che mi gioca, la mia proprietà che mi possiede.
E poi il piacere mi chiude gli occhi e mi gonfia il ventre, mi consuma.
Io mi svuoto e lei si riempie di me.

giovedì 18 febbraio 2010

piccio di sonno

Sarà colpa dell'insonnia imperante, saranno gli strani sogni pomeridiani, saranno le mail che la mattina promettono e la sera deludono, sarà il fermo immagine forzato, sarà che cerco e non so cosa né dove, saranno gli abbracci che restano interrotti, sempre precocemente interrotti, sarà il sangue sporco, sarà il caldo malato, sarà che chi c'è c'è troppo poco o troppo, saranno i pensieri ricorrenti e quel maledetto tasto pausa che s'è nascosto davvero bene. Sarà che prima c'era un senso condiviso, ma tanto prima, e ora non c'è più, forse che a trovare un senso per me sola non sono capace o non mi va, sì diciamo che non mi va, diciamo che sono distratta, diciamo che è un piccio di sonno…

mercoledì 17 febbraio 2010

Cosa importa di quello che avanza?
Esoscheletri vuoti
falde secche, scaglie di sapone.
Cosa importa di quello che rimane?
Privato del succo, asciugato, succhiato
raschiato dall'osso con lingua di gatto.
C'era questo dietro i portoni, nascosto oltre la prima fila?
Per conservare i filamenti disgregati ci siamo mantenuti saldi.
Per un sacchetto d'oro da tenere sotto il letto,
per due lettere in fila, per un solo unico momento.
Un'ora ancora, quella dopo, vomitata a lucido
calda di gas metano, troia abbandonata.

martedì 16 febbraio 2010

ginger

Ho comprato una radice di zenzero. L'ho presa da una bancarella indiana al mercato di Centocelle per 35 centesimi. La donna che me l'ha venduta aveva le dita lunghe e secche, del colore della terra rossa, e unghie ovali disegnate di henné.
Non avevo mai usato lo zenzero e così ho provato a metterlo un po' ovunque: sul riso con le patate, nel dolce al cioccolato, sulla crescenza, nel tè verde, nel soffritto degli spaghetto aglio e olio.
Ho scoperto che lo zenzero mi piace, mi pace tagliarlo e liberare la polpa umida dai filamenti legnosi della radice. Il profumo sembra quello del detersivo per i piatti al limone, ma il gusto citrico che punge la lingua mi fa pensare al ricordo di un altro luogo.
E così da due giorni mangio zenzero ovunque, lo provo grattugiato, a scaglie, a fettine e a dadini. Ci farò i biscotti, il finocchio e la pasta con la panna. Da provare sulle patatine fritte.
Lo userò per gli infusi che ristorano la gola dopo le notti lunghe di sigarette, sveglia a respirare un odore, stretta al calore di un ritorno.

lunedì 15 febbraio 2010

E poi mi chiedi perché vivo in un deja vu, perché sono in un teatro, perché sosto in una stazione.
Di cosa parlerei se dovessi dire di me? Di due case a piano terra, dei treni e degli orologi; delle parole, dei telefoni con la prolunga, delle bocche impastate. Direi degli amplessi sulla spiaggia, del vino nella plastica, delle cadute dalla bicicletta, dei tram, del nuovo sesso e dei vecchi amori. Direi di un odore stantio, dei capperi e del rosmarino, delle uova benedette a Pasqua. Dei sandali che friggono, delle bolle sotto i piedi; di un'estate che non passa, della comunicazione virtuale che non mi appartiene, delle dita dei piedi fredde. Dei colori su fogli scadenti, dei quaderni riempiti, dei libri sottolineati a penna. Direi della pioggia che mi cade sempre addosso, delle auto davanti ai portoni e dei passi notturni verso casa. Di film e di canzoni, di libri e di fumetti, delle piazze dentro i letti. Direi che per ridere faccio l'amore, che rincorro le illusioni.

Mi guardo nei frammenti di specchio, dall'altra parte della finestra stesa a giocare nella neve.

domenica 14 febbraio 2010

???

Punto 1: c'è un passato ingarbugliato da sbrogliare
Punto 2: c'è un presente in continua mutazione da vivere
Punto 3: c'è un futuro

Che sarebbe

Punto 1: c'è un presente da vivere che somiglia a una discesa libera, dove i piedi si mettono uno dopo l'altro solo per istinto di sopravvivenza, perché conoscono il loro compito. E mentre sei lì che corri per inerzia pensi che ti serve un appiglio, te ne serve proprio uno per mettere un po' di zavorra nello stomaco, tanto per svegliare il metabolismo e così…
Punto 2: cerchi materiale nella memoria, i vecchi pesi diventano ancore rassicuranti, pietre da far scivolare nell'apparato digerente… eppure…
Punto 3: ci sono tutte le cose da cercare, tutto quello che ancora non hai avuto… eppure…

Punto 4: ci sono tetti su cui è bello volare, dove l'aria è mite e ti accarezza le piume, dove le correnti ti sostengono, dove non hai paura.

E perché, poi, hai così tanta paura quando non hai paura?

sabato 13 febbraio 2010

C’è la paura che ti colpisce in viso, come onde continue, allora serve chiudere gli occhi, serrare le labbra, e remare come se non ci fosse altra via d’uscita.
Ma c’è la paura che sale dai palmi dei piedi. Si impossessa delle ossa e arriva allo stomaco, e sale nel petto, si accomoda sullo sterno e lì resta, come tenia, a svuotarci.
A volte la paura è solo soffio d'aria alle spalle, è tiepida e sembra una carezza, ti avvolge come una mano che riconosci, sussurra, ti confonde. E può capitare che copra gli altri rumori, può succedere che non ti faccia sentire le voci giuste.
Anche stare bene fa paura, avere qualcosa da perdere fa paura. La meravigliosa libertà di muoversi tra oggetti che non ci appartengono e a cui non apparteniamo.
Da cui.
Mi spaventa questo vuoto intorno. Le parole lanciate che tornano indietro, se chiudo le prospettive i pensieri rimbalzano sul muro che divide oggi da domani.

Continue lettere di addii ripetuti, confessioni reiterate, abbracci ultimativi, addi, ritorni, fughe e vacanze. Mani e sorrisi. E quella foto che ho rubato, dove hai una maglia che non conosco e poggi il braccio in un modo che non ho mai visto. Tutto quel rosso, il tuo rosso, quello che ogni volta sei tu. Quel rosso al collo di chiunque, ogni volta sei tu. Hai gli occhi lucidi e tristi e somigli tanto alla tua immagine.
Ora che non mento più, ora che ti dico ogni cosa, che ti ritrovo nella paura e nei miei attacchi di panico, ora che non ho spettatori attraverso con te la notte, dialogo con le ombre, verso le viscere.

Che in fondo le differenze ci sono ed è inutile ignorarle. E poi alcune cose restano e capita una mattina di sole di sentire un odore entrare con la luce dalla finestra aperta. E così sono nella cucina di via Castriota, a guardare il vapore salire da una pentola di terracotta e sfiorare il prezzemolo sul davanzale. Ti ricordi? Non funzionava il citofono, e gli amici fischiavano e io mi affacciavo sulla strada stretta per farli entrare. Ti ricordi il tempo a guardare il terrazzo di fronte? Doveva essere di un pezzo grosso, era così bello nel bianco di quella pietra, e noi a progettare le nostre architetture. Volevo un albero di limoni, sarebbe stato il primo acquisto, e avrei raccolto i cani dalla strada e tu avresti borbottato e detto che non potevo amare tutti, perché le ferite che avevamo non ci lasciavano sognare in pace. Ma io avrei comunque preso i cani e gatti per farli morire sui nostri divani sfatti. Avremmo arato la terra per seppellirli e io avrei continuato a cercare nei branchi una reincarnazione.
Ora il fumo metropolitano si posa sui nostri capelli e i pensieri volano più lenti. Ora la comunicazione è un file binario e i telefoni cadono nell'ammoniaca.
È vero: cucinare per sé è diverso, e non nelle quantità.
È vero che cerco la famiglia, perché in fondo le differenze ci sono, l'ho detto. Siamo fatte per creare il nido. Io lo metto su con aghi di pino e foglie di betulla, li intreccio leggeri e lascio che il vento faccia la sua parte.

giovedì 11 febbraio 2010

Nel fondo profondo di un pozzo pieno i suoi occhi mi guardano. Sorride di me. Restiamo così, in silenzio a osservarci e io non dico nulla. Vorrei allungare una mano per prenderlo, ma non lo faccio. Vertigine. Accarezzo l'acqua scura con l'indice. Poggio appena il polpastrello dell'indice destro, è fredda e ritraggo in fretta la mano. Vorrei allungarmi e accarezzarlo, ma non oso. I suoi occhi sono scuri eppure illuminano quella profondità. Negli occhi degli angeli c'è il fuoco. Ho paura di quello spazio di cui non vedo fine.
Eppure.
Questa paura la cerco, cerco l'oscurità di quello sguardo. Chiudo gli occhi e mi avvicino alla superficie liquida. La sfioro appena con il naso, sento l'odore freddo, immergo il viso. Il fresco sulle palpebre chiuse, sento un brivido che mi accarezza le orecchie. Ricordi.
Resto immobile a osservare, sul bordo.

Parole.
Accarezzarci con le parole, camminare sul filo dei significati.
Eppure.
I sensi arrivano all'insaputa, gli enigmi si svelano senza preavviso.
E poi.
Non so restare qui a guardare, non so fermare il desiderio, non posso andare oltre quello che vedo, ma camminare incontro alla fine.
Non abbiamo altro all'infuori delle nostre mani e gambe e ossa. Me lo ripeto.
La vergine analizza e la bilancia bilancia, ma la vergine è la terra, madre dal ventre caldo e sporco, madre dalle mani grandi e bocca umida. Gli schemi si rompono continuamente in ogni gesto, le parabole muoiono, le metafore si svuotano.
Siamo tutti uguali e rincorriamo gli stessi desideri. Sullo stesso carro rincorso dal fuoco, con gli occhi avanti e medesime paure sulle spalle.

lunedì 8 febbraio 2010

cooking

Il segreto per la riuscita di un buon dolce è la lievitazione. Far lievitare la pasta della pizza mi riesce piuttosto facile, mia madre dice che è questione di polso, ci si nasce. Io ho polsi e caviglie sottili e forti, ci sono nata.
I dolci sono diversi. Non seguo mai le ricette quando cucino, chiunque abbia confidenza con la cucina lo sa, non si prepara un piatto con il libro aperto davanti. Leggi una volta, memorizzi e poi vai d'esperienza.
Per i dolci è diverso. Quando faccio un dolce ho la ricetta e la bilancia sul tavolo di fronte a me, il forno non si apre durante la lievitazione e la cottura è un equilibrio instabile di temperatura.
La farina deve essere setacciata, il lievito sciolto nel latte o mischiato con la farina.
Io il lievito non lo sciolgo e non setaccio niente. Io metto tutto nella coppa e mischio. Usa la forchetta perché lo spazio tra i denti mi permette di creare nell'impasto le bolle che danno aria al lievito e fanno venire bene la lievitazione.
Io faccio così, è il modo in cui so farlo. Ho ascoltato i consigli, ho provato, ho sperimentato. Ma poi torno a farlo come ho sempre fatto. Perché conosco un modo solo per fare le cose, che poi è il mio modo.

domenica 7 febbraio 2010

anche questo

Se ti accadesse, Roberta, traversando via Ugo Bassi,
all'altezza del Self Service, di incontrare un vecchio giocoliere
un marinaio irsuto dell'Appia, o quel goffo barbuto
che si rosicchiava il niente, in un giorno di libertà
sulla parte sinistra del Reno, andando per Kostanz,
o se ancora ti accadesse, e dovrò spiegarti
come tutto ciò può accadere, di sentire nell'aria
salendo al Rizzoli o, che so, a San Luca, l'odore del pane
o dell'orzo bollito, le mille leccornie
per noi sconsiderati, o che si tingesse a festa
Porta Saragozza (te l'ho mai detto
che volevo scaricarci due carri di fieno?)
o che, poi tanto dà sempre tanto,
si potesse noi portar giù due carri di quella neve
morbida
che servirebbe a mia madre a riempirmi le tasche
a coprire il campo come con cenere
(come faccio a spiegarti i misteri
del pane, l'inverno senza neve
le notti senza luna, i frisi?
O le rivolte senza senso, i contraccolpi
le secche risposte di mio padre, i suoi tormenti
i ceci fritti, i baci in bocca a fine d'anno)
oh come faccio a spiegarti che qui il niente
non può trovare casa, che non siamo molto distanti
dalla vita. O che solo questo è vita.

Se qualcosa di questo ti accadesse, Roberta,
in via Ugo Bassi o tra gli alberi a Sciaffusa
quando l'acqua abbuffò il ricordo dei limoni
e mi costrinse alle bifore di Munot, quel fresco di morte
o il grido ai cerbiatti dentro al fossato
(ma forse te le ho dette queste cose)…
Senti Roberta, io arrivai a Wintentur una volta
per non sapere davvero che fare, sopra un treno di menta
a Zurigo, al passaggio, mi parve un giardino di cortesie:
sono stato sempre così, lo sai,
sugli occhi ho sempre avuto
due foglie di basilico – e poi sono
come il padre che non lascia mai il campo,
con gli occhi al cielo aspetto la neve.

Se qualcosa di questo ti accadesse
o se qualcuno ti parlasse di un mondo che ormai
gira sul niente, ti prego, stringi i pugni
mangiati il cuore parla delle ragazze di crema
dei loro fiori in petto, delle melodie di velluto
dei bazar in piazza a Martano
caccia le unghie fai capire che volevamo
fare della poesia di lotta, con Conversano,
dei treni che vanno a Milano, del fustagno
che vestono i poeti, delle croci di mia madre
e che il niente da noi non è innocente,
dei lupi mannari, delle tue notti
da strega, di Bodini dei peperoni
o di quando ci aggiustiamo il sole in testa coi lupini,
dei barattoli di camomilla per l'inverno
delle mele cotte dei nostri cortili dei Turchi…

oppure dì soltanto che non è da tutti rubare al cielo
i suoi segreti. Non dovercene spiegare le ragioni.



A. Verri, (per Roberta a Bologna), Il pane sotto la neve

E mi chiamavi spartuschia e mi dicevi meticcia. Un miscuglio sanguigno di bruno color di scogli e acqua gelida. Un impasto di fregi e affreschi, il limitare della tua tracotanza, la tua accoglienza.

Daunia

Che la neve fa bene al grano.

«[…] Forse vorrebbe solamente
smussare i singhiozzi di Adùnia
lasciar tutto passare, sbrecciarsi nel cuore
per introdurvi il mare.
»

Antonio Verri

sabato 6 febbraio 2010

a tombola

Mi piacerebbe scrivere una storia metaforica e profonda, di quelle che gelano le vene e lasciano soli e disperati con le inquietudini peggiori. Ma so scrivere solo di me e delle mie finestre aperte. So raccontare solo le voci che mi arrivano e l'odore di quest'aria nuova passata da decine di narici. Mi stupisco della scandalosa prevedibilità degli eventi, mi vergogno di come ogni cosa sia già decisa e cercata, voluta, chiamata. Le profezie e i desideri si avverano e mi lasciano un senso di vuoto nella gola. Cercare le somiglianze è sterile masturbazione. Non mi interessano gli specchi, non mi piacciono i ritratti. Eppure non capisco tutta questa agitazione. Questo rigirarsi tra le mani oggetti conosciuti, parole masticate. Gretti presuntuosi a discutere dell'angolazione del sopracciglio destro, dell'inflessione tonale di uno sbadiglio, del peso specifico di un punto e virgola. Anche i cani imparano a riconoscere le cose note: il loro nome, il padrone, la strada di casa. Vanitosi profeti del passato, abbiamo disegnato la carta geografica del mese che verrà, di tutto quello che abbiamo chiamato a noi. Lanciamo odori e richiami molto più profondi della nostra immatura perspicacia, abbiamo già tutto quello che ci serve, è la paura di morire dalla noia che ci fa correre in cerchio. Poveri piccoli uomini soli con loro stessi.
E Guccini non m'è piaciuto mai, ma stanotte dal sacchetto è uscito lui.

venerdì 5 febbraio 2010

Mi spinge nella stanza e accosta la porta dietro di noi. Inizia a baciarmi, lo fa con foga, con urgenza. Penso che non dovremmo. Lui mi accarezza e tira su la maglia, me la sfila, sbottona i jeans. No, non dovremmo perché abbiamo detto che non va bene, e poi non è giusto… quasi quasi mi fermo. Mi stacco, lo guardo. Mi mi si butta addosso, mi tira sul letto, si spoglia. Però quant'è bello! In fondo sono incazzata… e allora sì, perché dovrei fermarmi? È solo sesso. Così chiudo gli occhi e lo bacio. Ecco, ora lo bacio solo con gli occhi chiusi, sono solo corpo, non gli do altro. Mi gira la testa. Mi alzo, chiudo la porta a chiave. Torno sul letto. Mi fa girare. Mi si mette da dietro quando arriva Raffaele e inizia a bussare. Dice qualcosa che non capisco, sta litigando con quei ragazzini, vuole che lo aiutiamo, che diciamo a quelli di lasciarlo stare perché ha ragione lui.
Gli grido di stare fermo e non aprire. Ma lui è più veloce e abbassa la maniglia, spinge un po' la porta e apre.
Io abbasso la testa sul letto e provo a coprirmi. Resto così, nuda con la testa sotto le coperte, ignorando la sua presenza e aspettando che vada via. Ma Raffaele è ancora lì, continua a parlare. Lui gli grida di andare. Di malavoglia chiude la porta. Restiamo così, immobili per un po'.
Lui si alza.
– Dove vai?
– Ora lo piego!
Esce senza vestirsi, io provo a fermarlo. Di là ci sono tutti. Penso che se lo vedono nudo capiranno perché non riesco a mandarlo via.
Chiudo la porta, giro un po' per la stanza, raccolgo le cose sparse a terra. Entra mia madre, sotto il braccio porta un cesto pieno di vestiti.
– Ma non si chiude questa porta?
– Cosa? Ah, no… – mi sta prendendo in giro? – Mattia ha messo una scatoletta sulla serratura.
Mi guarda e sorride ironica: – Eh, povera te! Non ti lasciano un momento di tranquillità.
Penso che ha ragione, e che neanche lei però me ne lascia uno.

lunedì 1 febbraio 2010

Where

Se non piove e non c'è nebbia. Se l'aria è pulita e c'è pure il sole. Se metti la testa sotto l'acqua, se guardi come devi guardare, se non ti lasci distrarre da un volo improvviso, dal passaggio di un'immagine inaspettata. Se alzi la testa, se non hai paura, lo vedi. Non importa quant'è lontano, ma è lì solo per te. Può essere vuoto o pieno, grande o piccolo. Puoi trovarci qualcuno o essere solo, puoi arrivarci correndo o molto lentamente. Puoi fermarti, prendere una pausa, aspettare. Puoi tergiversare, controllare la rotta, dire che forse stai sbagliando. Ma se l'hai visto non si torna indietro: alla fine arrivi dove devi arrivare.

sabato 30 gennaio 2010

pippo-pippo

È arrivata una lettera. Mi chiedono di tornare.
È arrivato un colombo, ho lasciato che entrasse. Ha aperto appena le ali per planare sul mio cuscino. Sta male, non potrò aiutarlo.
Quando parlano di me ho un prurito al perone sinistro che sale al ginocchio. È un po' che non lo sento. Stamattina il postino è stato puntuale, uscito da un sogno alcolico che non ricordo.
Ma qui ci sono solo io e il colombo con la zampetta rotta che becca nervoso la stoffa delle mie lenzuola.
Mi sono ricordata delle cose dette tanto tempo fa, quando brindavamo nella plastica con pessimo vino emiliano, ogni volta che lo dico Federico si chiede se mi vuole ancora bene. Eppure è così, non ci vogliamo bene perché è facile farlo. Che strano, è stato facile mai?
Firmiamo una petizione contro la schiavitù delle parole, contro l'uso delle metafore e il dirottamento della logica. Manifestiamo in sostegno dei verbi all'infinito e degli acronimi, un sit-in per i falsi ricordi, per i pippo-pippo. E rotoliamoci giù per le strade, facciamo girare i ponti e cantiamo ognuno la sua canzone contemporaneamente. Facciamo ballare i pesci nelle reti e zoppicare i lombrichi, rompiamo le righe delle processionarie e soffiamo dentro le bocche aperte dal dentista. Oggi è festa, metti la giacca al contrario che ti porto a bere nella camera iperbarica. Sai, mi piace il tuo amico, avevi ragione tu, lui è bello davvero, ma mi sono cadute le dita sotto il tavolo, stavolta non ti devi preoccupare.

amedio

In quello che c'è oggi, e in quello che vedo dietro di me, i contenuti sono molteplici. Non c'è una faccia sola, ma centinaia di occhi, nasi e bocche e voci che si sovrappongono in un brusìo costante. La notte tornano e dormono con me.
Ho le mani gonfie, non era mai successo. L'inverno scorso avevo sempre i crampi ai piedi quando andavo a letto, non mi era mai successo. Quante cose ancora non mi sono mai successe? Quante non accadranno mai?
Mi dicono che c'è qualcuno che vuole qualcosa da me. Ne sento la voce lontana, ma io non credo che mi stia cercando. Quel qualcuno ha perso la sua strada, ma io non ho mai camminato nei suoi pressi, perché dovrebbe cercarmi? Si suppone, si immagina, si crede.
Poi all'improvviso piove fino a bagnarmi le caviglie. E allora? Cosa importa più?
Io gioco, ho già diviso i ruoli. E poi? Ricomincia a cadere acqua dal soffitto.
Ma prima ogni cosa era chiara, e io stavo di qua e tu là e lui da quell'altra parte. Ma ora l'acqua ha sciolto l'inchiostro.
Ho affrontato tutto con stoicismo. E allora perché non dormo da tre notti? E allora perché vorrei prendere un treno solo per pulire gli angoli in cui la polvere si è accumulata? Pasqua era troppo presto, questo l'ho già scritto.
Ascoltavo sempre una canzone quando partivo. Ora ascolto spesso una canzone di ritorni, dice che sto tornando da te, e te sono io. L'ho detto, ho diviso i ruoli ma c'è molta confusione. Io sono te, me, qualcos'altro. Tu sei lui, lei, un altrove. Noi saremo, ma per adesso no, ora no, ora ancora non si può.
E vorrei litigare. Quanto vorrei litigare. Ma io litigo solo con il babbo, il fratello, il gatto, lui e lei, solo con loro. E gridare tutta la polvere che è rimasta negli angoli e il fottuto stoicismo chiuso nell'armadio sotto l'arancia rinsecchita, perché che ora non posso gridare più non lo accetto.
E i discorsi, sì i discorsi, e che belli i discorsi. E parliamo sotto il grano che muore, e diciamoci tutto, ma che sia proprio tutto detto ora che domani chissà se siamo ancora insieme. Eppure non basta mai, eppure tutto ancora non te l'ho detto, perciò ti chiamo e vediamoci di nuovo che qualcosa è sfuggito. Ma devo salire su quel ponte che si chiama P.P.P. ma non ha niente di poetico, e devo andare via e sentire quella canzone tanto triste che dice che non ci rivedremo più, ma io lo so che ci rivedremo, ma sarebbe bello non rivederci più così potrei sentire quella canzone tanto triste ed essere triste davvero.
Ma triste davvero non lo sono, e come sarebbe bello esserlo.

venerdì 29 gennaio 2010

La nostalgia dei desideri perduti
come zucchero tra le dita.

Il processo di creazione dei pensieri logici lascia dietro di sé un cumulo di materiale di scarto. Scivola lungo la colonna vertebrale quello che avanza dalla macchina perfetta. Un impasto di materiale inutilizzato si posa tra le vertebre e intacca il movimento nervoso. Così le braccia cadono lungo i fianchi e una luce sporca avvolge ogni azione. È lo spazio millimetrico di adesione lungo i bordi dei pezzi incastrati con ragionevole precisione. Uno stridulo rumore di schegge di vetro tra le ruote, un aggettivo di troppo dopo una pausa inutilmente lunga. È quella la materia delle nostre azioni.
È nello sporco che camminiamo, umidità dell'aria al 90 per cento, particelle sospese di umori epidermici. Siamo lì, non c'è molto altro da dire.

«Mi ricordo di discorsi belli tondi e ragionevoli»

martedì 26 gennaio 2010

99

I primi 20 negli ultimi 20, dal 5 al 6, dal 5 all'1, dall'8 al 10, sempre nei 2 e 0 per 3
Dal 17 al 18, dal 4 al 5, dal 7 al 12, dall'8 al 9, sempre nei 2 e 0 per 3

venerdì 22 gennaio 2010

angry

Sveglia at six o'clock
impossibile to jump the wall in the garden
occhi aperti in my bed
e pensieri troppo heavy to fly.
Non serve essere in due
to be afraid of the morning.

giovedì 21 gennaio 2010

quello che avanza

A volte ci sono delle parole dentro, ma su un'altra strada. Le vedi oltre lo specchio e ne arrivano solo colori confusi. A volte vorrei riuscire a prenderle ma sfuggono. C'è un suono lontano che non riesci a canticchiare, forse solo un ricordo. A volte vorrei parlare e avere vicino, ma non saprei cosa dire né dirmi perché esserci. Forse vorrei solo mandare un richiamo, lanciare in aria una piccola luce che dica dove sono e farmi raggiungere. Vorrei che suonasse il mio campanello, aprire la porta e “siediti faccio un caffè”, col sole poggiato vicino al cucchiaino e lo sguardo lungo le mattonelle. E col tempo che scorre orizzontale lasciare che le cose vadano al loro posto, ricordare quel ricordo.
C'è quella cosa che resta lì, sottratta a tutto il resto, c'è quello che faccio, dico e penso, e poi c'è quello che avanza.
Il senso è una strada che ci scorre di lato.

lunedì 18 gennaio 2010

I'm speaking new

"Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa in prestito e qualcosa di blu".
È strano questo sole a gennaio… dovremmo preoccuparci del surriscaldamento terrestre? Le notti sono di nuovo dolci per accogliere i nostri passi… dovrei preoccuparmi dell’ondata di delinquenza? Le parole trovano nuove strade e nuovi ascolti… dovrei avere timore per la violazione della privacy?
Il mio Ipod è nuovo, non conserva memoria.
Sui tetti corrono i cavallucci della buonanotte.

venerdì 15 gennaio 2010

Oz

Lascia stare,
non importa,
ora andare non lascia detriti.
Vedi? I miei piedi sono già leggeri.
Lascia stare.
L’acqua scorre verso il mare
e i miei piccoli amici sono tornati.
Ascoltami
non ci sono più segreti
lo sapevamo già.
Non vedi che non ho più parole? E cosa sono senza parole?
Tutte le nostre metafore si sono rivelate,
quello che io sono lo sapevamo già,
e se apro la finestra
questo vento mi porta via.

lunedì 11 gennaio 2010

possiamo

Si può tirare su l’ancora ogni volta che cambia il vento, si può trasformare ogni cosa in una metafora, si possono vedere dipinti nelle nuvole, si può credere nella magia. Ci si può avvicinare alle persone sbagliate, si può mangiare al Macdonald, si possono scegliere capri espiatori. Si può parlare parlare e parlare, si può tacere, si può stare da soli, si può telefonare sempre a qualcuno, si possono cambiare i soggetti lasciando invariata la storia. Si possono passare ore a sfiorarsi le mani, si può sostare su un filo, si possono lasciare le famiglie, si può andare sempre più lontano. Si può stare fermi sempre e comunque, si può vedere nella geografia la mappa del nostro essere, si possono raccogliere i geni degli avi. Si può prendere sottobraccio il primo venuto, ci si può sposare vestiti di rosso, si può andare a messa con la pelliccia, si può attaccare bottone con le ragazzine, si può fare pipì davanti ai portoni. Si può lavorare gratis, ci si può far pagare per un po’ di compagnia, si può mandare tutti a ‘fanculo, si può dire ti amo a chiunque. Si può fare finta che non importi, si possono sentire canzoni struggenti cercando una lacrima che non scende, si può dire che ci importa. Ci si può vestire di viola, si può essere ecologisti e carnivori, si può essere alternativi e di tendenza. Possiamo accenderci le sigarette in bicicletta, possiamo incontrarci e fingere di conoscerci, possiamo salutare gli estranei, possiamo lasciare i cani in autostrada. Possiamo vedere la costiera amalfitana in Abruzzo e respirare a pieni polmoni sotto l’Ilva, possiamo mettere bellissimi tappeti persiani e colorarci con l’hennè, possiamo fare patti di sangue. Possiamo andare dove ci pare, fare quello che vogliamo, fingere di essere innamorati. Possiamo allungare solo un poco la mano e prendere la cosa più vicina, possiamo lasciare le porte chiuse. Possiamo raccontarci una tristezza sublime, possiamo scrivere poesie. Possiamo spiare, possiamo fingere di capire, possiamo giungere alle conclusioni. Possiamo creare sensi di colpa, possiamo accusare e perdonare, possiamo lasciarci andare. Possiamo fare tutto, qualsiasi cosa riesca per un attimo a riempire i nostri spazi vuoti.

Laputa

Al centro del potere contorto degli uomini c’è un grande albero millenario. Si possono avere troni e armi e ingegno, ma non si può vivere staccati dalla terra.
Laputa, città persa nel cielo, versione levitante di Atlantide, sogno e speranza, minaccia implacabile.
Come sempre nei film di Miyazaki, i protagonisti sono dei ragazzini, come sempre, il loro è un percorso di crescita che può avverarsi solo tramite il ricordo e il riconoscimento delle radici.
I bambini che lui descrive, però, fanno impallidire il più ferrato degli eroi adulti, hanno gli sguardi attenti e il cuore puro e sanno attrarre il loro destino con la forza dell’innocenza.
Gli elementi ricorrenti ci sono tutti: le macchine volanti, un incontro casuale ma scritto nel destino, i cattivi che diventano buoni perché bagnati dal riflesso di quell’amore innocente e giovanile che non si lascia fermare.
Pazu e Sheeta s’incontrano, lei viene posata da un potere misterioso nelle sue braccia. Sheeta è l’ultima erede del regno di Laputa, conserva solo la pietra che la guiderà alla città volante, Pazu sogna di trovare quel castello per riscattare il nome del padre, morto senza che nessuno credesse alla sua storia.
I cattivi veri sono quelli del potere istituzionale, è l’esercito, portatore legale di morte, i cattivi redenti sono i pirati. Miyazaki ogni volta vuole mostrare che ci sono delle luci tanto chiare, delle ombre molto scure e dei luoghi pronti a farsi illuminare.
La forza della storia è negli episodi laterali, nelle singole azioni che da subito portano chi guarda a un livello di empatia raro, ho visto il film con trenta adulti che ridevano, si spaventavano e trattenevano il respiro come se avessero avuto vent’anni di meno.
La musica, i paesaggi ampi e meravigliosi, i personaggi basati sugli stereotipi più riconoscibili e raffinati riportano la mente al respiro immortale dell’infanzia.
Questo film è un manuale per veri uomini, insegna a crescere e a non avere paura, a stare abbracciati per non perdersi nel vento. E anche se alla fine il fuoco della pistola nemica taglia le trecce di Sheeta, la perdita dell’innocenza non le cade addosso come sconfitta, ma come consapevolezza della sua vera natura di regina e protettrice del suo regno.
Non è di certo un film all’altezza dei suoi capolavori, ma l’effetto che crea è comunque quello sperimentato: curiosità e gioia infantile dall’inizio alla fine.
Io, davanti ai film di Miyazaki, metto su un sorriso che illumina la stanza!

domenica 10 gennaio 2010

***

Pomeriggi domenicali ad affrontare un superego malamente digerito. Sbattuta nel freddo delle stanze di dentro e fuori, col gas contato per il giorno dopo e il conto in rosso come un avvisaglia di cedimento.
Quartiere popolare che di domenica non trovi birra né compagnia, né un amaro nostrano per digerire pensieri e pranzi saltati. Ancora qui a cadere nei due pozzi neri di dolcezza mal passata, col peso del corpo che si sposta su un piede e su un altro perché a volare ancora non si impara.
Ho chiacchierato e bevuto e sorriso, ho camminato e sostato e ascoltato e letto. Le telefonate del dopo pranzo come ammazzacaffè non richiesto, le sberle per rivedere la realtà, le scosse per svegliare dal torpore. Il mio letto racchiuso tra mura, libri e immagini riflesse, gennaio fuori dalle coperte e palme che si piegano oltre i vetri. Gli appuntamenti rimandati e le offese lanciate. La forma delle labbra come emoticon nascoste, il suono del campanello racchiuso tra i lobi bucati.
Un sabato di pioggia e città grigie che apre il petto e rasserena i pensieri. I sogni che cadono con le teste addormentate su regionali rumorosi, il giornale del giorno prima, la mia Fulvia tenuta per mano.
Un nuovo segno sulla fronte per sorreggere i capelli, sotto la lana il petto pietrificato.
Menti geniali in simbiosi arginate, avvicinamenti appiccicosi di nebbia e saliva sputata nei discorsi accalorati. Penne e piume cadute dalle nostre ali. Buchi bianchi e neri che succhiano e sputano, centrifugati nella nostra voglia di vita, sbucciati come pecore dimenticate al pascolo. Mi attacco al corrimano e scateno primavere artificiali versate sui tuoi vestiti slavati. Abbiamo fatto l’alba e guidato con distrazione, senza paura degli etilometri per conservare la nostra identità. Scriverò a F. e parlerò con Sì, gli dirò chi siamo noi e chiederò chi sono io cercando ogni modo per poterle contraddire.

sabato 9 gennaio 2010

forme

E se tu avevi una citazione per ogni canzone di quelle che sono tue, non è uguale a guardare il mare e pensarti? Io porto addosso sempre quel maglione quando brindo su tavoli in plastica e sul notturno penso che i poster non crollano più e adesso tolgo le scarpe prima di andare a dormire. Le pozzanghere si sono asciugate, non le riempiono neanche i miei occhi. Che strano, solo adesso ricordo che ho preso un gatto con l’aids.

venerdì 8 gennaio 2010

water closed

«Scusa, dov’è il bagno?»
«Come?»
La musica era alta e la gente di fronte al bancone non si spostava. Gridò più forte: «Il bagno!»
«In fondo alle scale»
Si fece strada con i gomiti alzati. Faceva caldo e il sudore le colava sulla schiena mischiandosi a quello della gente che urtava.
Trovò le scale. Erano strette e scivolose, si aggrappò al passamano per non scivolare, c’era poca luce e vedeva con difficoltà i gradini. Arrivò nella saletta in fondo. Qui i rumori erano attutiti, si sentivano i bassi vibrare sul soffitto. “Donne”, entrò e si chiuse a chiave.
Il bagno era una stanza unica con lavandino e water. Alzò la gonna e si abbassò gli slip stando attenta a non toccare i bordi del gabinetto, con l’altra mano si reggeva al lavandino. Niente carta igienica, imprecò.
Si risistemò la gonna e lavò le mani sotto l’acqua, sapone finito. Si guardò allo specchio: i capelli crespi, come sempre, e il trucco sciolto per il sudore. Passò l’indice sotto gli occhi, prese il rossetto dalla borsetta e se ne stese un po’ sulle labbra. Bene.
Mise una mano sulla maniglia e con l’altra provò a girare la chiave: incastrata. Tirò un po’ la porta verso di sé e tentò di nuovo, ma proprio non girava. Calma. Lasciò andare la maniglia, si abbassò al livello della serratura, tolse la chiave e ci guardò attraverso. Si mise di nuovo dritta, infilò la chiave al suo posto e girò. Cazzo!
“Stai calma”
Insistette, ma il metallo le stava ferendo le dita, neanche un fazzoletto per aiutarsi. Non voleva metterci troppa forza, per paura di rompere la chiave.
Si allontanò, giusto i due passi che separavano la tazza dalla porta, tornò indietro, avvicinò l’orecchio alla porta per sentire se c’era qualcuno dall’altra parte. Le arrivava la musica e alcune grida d’entusiasmo in lontananza, ma nessuna voce vicina.
Riprovò.
“Ok, non entrare in panico”, tirò e spinse la porta varie volte, provò a girare la chiave dandole varie inclinazioni, ma sembrava proprio che la serratura fosse inceppata, “funzionava fino a cinque minuti fa!”.
Prese il cellulare dalla borsetta: isolato.
“E certo, siamo praticamente in un bunker”. Accese una sigaretta, “magari c’è l’allarme antifumo e vengono a tirarmi fuori”, ma la cicca finì e non era cambiato nulla.
Mise le mani sotto l’acqua, si guardò allo specchio e spalancò gli occhi in un’espressione di terrore. Sorrise. Poi, senza molta convinzione, provò con altre due spinte e girate.
“Ok, la serata è finita. Bella figura di merda, chiusa nel cesso della discoteca!”.
Inutile sperare che qualcuno si accorgesse della sua assenza, poteva essersi trattenuta al bar o aver incontrato qualcuno. Si sarebbero preoccupati solo prima di andare via, “sì, fra tre ore!”.
Guardò il gabinetto, il bordo era zuppo, escluse di sedersi.
“Ne rideranno per settimane”.
Accese un’altra sigaretta: “Ma qui non piscia nessuno?”.
Mentre gettava la cicca nell’acqua del water sentì bussare.
«Sono rimasta chiusa dentro», che fesseria.
«Occupato?» e poi dei ridolini di ragazzine.
«No, è che la porta non si apre».
«Ah!».
«Puoi chiamare qualcuno?».
«E da chi vado?».
“Imbranata!”.
«Senti, facciamo così, ti passo la chiave sotto la porta e provi ad aprirmi tu», “sì, con tutte le schifezze che si son prese queste, già è tanto se trovano il buco. Sempre che non facciano le stronze e mi lasciano qui ad ammuffire”.
«Hai capito?».
«Sì, sì, va bene… passa».
Tolse la chiave, si abbassò e la fece scivolare sul pavimento appiccicaticcio. Sentì l’altra raccoglierla, inserirle nella porta e fare un po’ di forza.
«Non ci riesco…», «dai, provo io». L’amica smanettò un po’ vicino alla serratura, lei dall’interno vedeva la maniglia fare su e giù con violenza, poi all’improvviso la porta si spalancò.
«Dio mio, meno male, stavo collassando là dentro!».
«Eh già».
«Grazie, fortuna che siete arrivate voi».
«Di niente, di niente. Possiamo andare?» disse la ragazzina indicando l’interno del bagno.
Lei uscì, le salutò e si avviò per le scale.
«Noi non chiudiamo, reggi tu, eh?».
Passò dal bar, aspettò con calma il suo turno, ordinò un rum e cola. Col bicchiere finalmente in mano tornò a ballare con i suoi amici.