giovedì 25 marzo 2010

escape the beast

Sul letto due cadaveri, hanno la stessa faccia. Le palpebre cucite con fili dei miei capelli, a punti stretti bucati dall'ago. Il giorno spunta e la città aspetta. Non è un mondo di libertà, finché ci impoveriremo e rattristeremo sulle nostre incapacità non sapremo fare meglio di così. Ingoiando sale ho capito dov'è l'errore e ho trovato la pietra incastrata. Ma i due cadaveri non si muovono, li ho inchiodati al letto con le mie ossa, martellate su un errore di calcolo.
In una vita sbagliata, proiezioni di una scelta avventata, conseguenze di una svista, morti per caso, caduti dalle mani.
Ma l'errore è vecchio, gli anni si accoppiano sul mio calendario e il figlio scambiato nella culla non si trova più.
Non è ora e qui che piango. Io piango una morte vecchia di marmo e polvere rossa, io piango una morte viva che ogni giorno rinnova il suo sacrificio.
Chiederò all'oracolo il segreto per attraversare una nuova distesa di ore, taglierò le labbra con il ghiaccio e resterò seduta affianco al mio corpo, aspettando che tornino a finirmi.

lunedì 15 marzo 2010

die zeit

Penso che per un po' mi fermerò. Le parole non trovano più la forma indispensabile per uscire, ora l'urgenza è in altri luoghi. Ora le parole servono per vestire concetti, per ordinare il caos, per parlarmi, per raccontarmi e spiegarmi. Ora quello che dico deve restare tra le dite, dalla penna alla pagina, forse ritrovare la scrittura fisica, quella che macchia di inchiostro i polpastrelli, quella che riverso sui miei fogli color avorio durante gli attraversamenti sul 19. Quello che scrivo ferma su una delle rare panchine romane, che in questa città ci sono tante fontane ma pochi spazi per fermarsi, pochi angoli riparati per rullare una sigaretta e scegliere la canzone adatta da somministrare in cuffia.
A volte la scrittura diventa ansia di comunicare, vuole dire troppo e non sa nascondersi. E, quando si decide che è finito il tempo di fuggire, i pensieri escono fuori di getto irrequieti, ma poco interessanti.
È arrivato il momento di riprendere le parole nella bocca e succhiarle, di stringerle e farle asciugare. Ora è il momento di parlare e aprire i pensieri, mandarli in giro a recuperare significati nuovi, lasciare che si aprano come tessuti lisi, che si leghino ad altre trame, e poi riprenderli dentro e rammendarli.
Ora si cancellano i sostituti, si richiamano i sosia, si distruggono gli avatar. Ora ci si mette la faccia e il dolore, senza nascondersi. Ma le parole hanno bisogno di buio e silenzio, di sangue vero, quello che si incrosta sul cuore, quello che va grattato minuto dopo minuto.
Ora le parole sono quelle delle mail lasciate in bozza nella casella di posta, negli sms non inviati, nelle simulazioni di discorsi. Quando la notte mi sveglio e mi racconto storie, quando mi torturo, quando immagino gli scenari peggiori, quando vedo solo spalle e abbandoni, quando decido di essere sincera. E in questi momenti ripenso a chi mi dice che io so lottare, a chi dice che mi sceglierebbe come compagna per affrontare i vampiri.
Quando si attraversano percorsi lunghi e oscuri bisogna affidarsi a tracciati pregressi, a quelli che siamo riusciti a disegnare nei momenti di lucidità, a quelli che i nostri aiutanti hanno disegnato per noi.
Sono in un campo magnetico, sento il rumore dello strappo, sento le forze di attrazione e repulsione lottare. Mi chiedo se è poi vero che in fondo vicinanza e lontananza non sono altro che misure geografiche, so che la paura è solo un cedimento della mente e che temere la perdita è una debolezza dello spirito.
Resto in quello che non so, mi costruisco su ciò che manca, riempio le assenze e cerco il silenzio e l'oscurità di nuove parole, idrocarburi da bruciare per illuminare un'altra mattina.

...con il mare negli occhi...

water#1
water#2
water#3
water#4

domenica 14 marzo 2010

disarcionati

Ho amato un ragazzino intimidito che si nascondeva dentro la pelle del suo giubbotto. Ora è un uomo impaurito che si nasconde dietro un accento del nord su lunghe vocali strascicate. Ho amato un diciassettenne indurito che temeva di guardarmi dritto in faccia, ma non fuggiva le sue paure. Ho amato un uomo forte che ha dimenticato la tenerezza e la fiducia, amo ancora il suo maglione sformato e la scrittura appuntita, il posto tra le sue braccia e i capelli sulla nuca. Ho amato donne meravigliose, le ho seguite e accompagnate, le ho abbracciate e consolate mentre ci scambiavamo i vestiti e reggevamo la fronte. Mi sono persa e ritrovata, mi sono strappata per seminare brandelli, mi sono bruciata e ho respirato ogni volta di nuovo. Ho amato uomini che mi hanno toccata solo con la mente, ho tenuto le loro mani mentre sul lunotto scendeva l'acqua, li ho amati senza muovere le labbra. Ho amato un corpo illuminato dalla mia fantasia, sottratto alla quotidianità dalle mie aspirazioni artistiche, stuccato su un affresco per dimenticare la monotonia.
E ora mi dicono che non si ama più, perché ora abbiamo paura.
Ora mi dicono che bisogna inventare nuovi discorsi per non parlare veramente. Ora mi dicono che bruciarsi e giocarsi fa diventare seri: ma questi mentono!
Noi abbiamo sempre riso. Ci siamo fatte gli addominali tra gli spasmi dei denti, noi passiamo ore su letti sfatti a rovistarci dentro. Arrivano voci di generazioni impaurite, raccontano che negli anni zero i rapporti sono a progetto e le mani si stringono con l'Amuchina. Dicono che dobbiamo conservarci, metterci da parte, versarci in banca. Dobbiamo crearci un avatar che ci permetta di restare dove siamo senza fare fatica.
Ma siate marinai!
Fatevi bagnare dal mare ghiacciato, fatevi venire le bolle sotto i piedi, abbiate fame. Affrontate il mare aperto, perdetevi, Dio santo, perdetevi! Vomitate parole, vomitate emozioni, buttate fuori, alleggerite gli intestini. Create cadaveri leggeri, spogliatevi, vendetevi, regalatevi, passatevi di mano in mano. Fatevi mangiare e digerire, fatevi leggere e buttare.
Siate marinai, createvi delle rughe originali, delle cicatrici invidiabili, marcitevi i denti e seccatevi la bocca. Deridete la paura e l'avarizia, alzatevi in piedi di fronte a una donna, sollevatele la gonna, baciatele la mano. Tiratele i capelli, prendetela di spalle, soffiatele nell'orecchio. Ditele che la amate, mangiatela, bevetela, regalatele la vostra voce, fatevi ponte per lei, strada per lei, barca, brocca, vino. Ditele che non la farete andare via, ditele che non la porteranno via da voi. Regalatele un'alcova, sciogliete i suoi lacci e datele la libertà.
Come colomba, lasciate che torni libera a voi.

linee

Porto un gessetto sempre con me, devo fidarmi delle mie disposizioni. E così nei momenti di lucidità segno confini, traccio geografie, scrivo cartelli autostradali. E bisogna scrivere. Scrivere ed essere profondi, scrivere e parlare, e guardarsi con gli occhi bene aperti. Bisogna dire e dare forme a quello che vediamo, con attenzione, cercando di restare fedeli ai contorni, guidando la mano, tenendo a bada la fantasia.
E parlando mi spoglio, e spogliandomi acquisto forza, e con la forza divento altro, e sono già via.
Nuda e senza più nulla da nascondere perché accecato dal bagliore della mia pelle tu non sappia più colpire.

lunedì 8 marzo 2010

in vana mente

Mi perdo nel cercarti

8

Se si potessero identificare i punti di inizio e di fine si potrebbe dire che ogni volta si ricomincia daccapo. E si potrebbe anche affermare di non voler ricominciare più, di volere un punto, di segnare una linea, di evidenziare un qualsivoglia confine di demarcazione che ricordi lo spazio in cui non bisogna più mettere piede. Si potrebbe disegnare un cartello di avvertenza: “Off limits”, “Non oltrepassare”, “Terreno avvelenato”. Servirebbe a ricordare, servirebbe a non ripetere, a cancellare le reiterazioni, a eliminare la recidività; sarebbe facile andare da un'altra parte, per esclusione, anche solo per quello. Ma tutto è un unico campo, non abbiamo iniziato e non finiamo, senza capo né coda, in balia del vento che spazza via il segno dei miei passi già fatti.

sgocciolo



Se

esistesse


un



mondo




dentro





cui






cadere







dietro








le









palpebre











fin











dove












arriverei?












«My mind feels like glass
Ready to be smashed
»

venerdì 5 marzo 2010

Se ci fosse acqua, qui ci fermeremmo a bere.
Se ci fosse spazio ci stenderemmo sulla terra bruciata. È un paesaggio nero di scogli e di fichi d'india, arrivati nel mezzo dell'ora contraria all'incrocio dell'ultimo avamposto nazionale. Una vipera attraversa cinque metri d'asfalto, la guardo con apprensione, che la prima serpe che abbia mai visto vivere non sia la prima che devo veder morire.
I sandali friggono la pelle dei piedi, stasera ci schiacceremo le bolle nell'aria fresca di un seminterrato in prestito.
Estranei di luoghi che fanno bollire il sangue. Un richiamo più forte della nostra memoria. Il niente.

mercoledì 3 marzo 2010

Lo strappacuore

Boris Vian, Lo strappacuore, Marcos y Marcos

Leggere Vian è come farsi portare in giro da un cicerone beffardo e irriverente, che descrive paesaggi incantevoli e surreali, ci confonde e si prende gioco dei concetti convenzionali di spazio e tempo.
Giacomorto arriva in un paesino della costa, mentre passeggia vicino al mare sente delle urla arrivare da una casa vicina. Entra e trova Caterina partoriente, infila i guanti e la assiste. Il risultato delle lunghe ore di travaglio sono tre gemelli, anzi dei tremelli, anzi no: due gemelli e un singolo.
Un libro costellato da invenzioni letterarie e continui giochi di parole, traslitterazioni, neologismi. Ma questo si sa, questo è Vian. A volte quasi gratuito, ci si domanda sempre se sia geniale o se solamente si prenda gioco del lettore, forte del potere conferitogli in quanto creatore della storia, dio di quel mondo immaginario. Ma se l'inventiva, a volte solo estetica, si libera nelle descrizioni e nelle trovate di nomi originali, gli avvenimenti, i personaggi e i pensieri sono metafore per decostruire le convenzioni più radicate, per mettere alla prova gli automatismi del pensiero comune.
E così i sacrifici e le paure esagerate dei Caterina, tormentata dall'ansia che ai suoi tre porcellini possa accadere un incidente, sono la testimonianza del suo amore materno, e quanto più il suo pensiero degenera e lei rinchiude se stessa e i figli nella gabbia di un autolesionismo ingiusto tanto più dimostra di essere una buona madre.
Intanto Giacomorto osserva. Si trasferisce in quel paese crudele, dove gli abitanti pagano in oro per essere liberati dalle loro vergogne, dove il prete fa prediche su una religione che non è bisogno ma lusso, perché a Dio non interessa sfamare il proprio popolo, dove i ragazzini vengono sfruttati e insultati come se fosse la cosa più naturale del mondo e i vecchi venduti all'asta in una sadica parata di piazza. Giacomorto osserva e riflette, lascia che abitudini e pensieri lo attraversino, cerca di riempirsi, come l'uomo di latta è convinto di essere vuoto senza emozioni e così dalla sua condizione di diverso si indigna e stupisce per cancellare subito ogni sua preoccupazione: cosa importa a lui che non prova sentimenti, in fondo sono solo comportamenti da uomini.

martedì 2 marzo 2010

etimologia di un'origine

Sono nata tra due mari, tra quello grande e aperto, ponte per l’Africa, porto per stranieri, e quello piccolo e chiuso, dove si coltivano i mitili come fosse un orto, dove si affacciano gli alberi di clementine, dove andiamo a bagnare i nostri occhi, dove il cielo cittadino si specchia rosso di vergogna. Dove l’umido bagna le mani e i capelli, e poi la tramontana arriva a seccare la pelle, lisciare le teste e asciugare i pensieri affogati nella condensa.
Nella “città del tramonto”, dove il mare porta gli oggetti a morire sulla sabbia, come fanno i delfini, come nello stemma originario.
Qui si muore sotto il rosso di un cielo avvelenato, si sosta intrecciando i capelli, si scava il futuro, si respira rabbia e desolazione. Da qui si va via e qui si torna a tramontare, tutti ci tornano, perché il rumore che fanno quei due mari non se lo può scordare nessuno.
Gli attacchi arrivano da destra e da sinistra, non c’è sosta né vero riposo. Allora ti indurisci e lotti. I pescatori hanno la pelle scura e i calli sulle mani, gli occhi consumati a forza di guardare le onde e le labbra secche di sale.
Cresciuti in una terra fertile di aridità, alberi cementati, piedi inquieti, occhi schivi e parole morsicate.
Il centro storico che è un’isoletta inconsistente rispetto all’estensione urbana, come il cuore di un lupo nel corpo di un orso, madre consumata dall’allattamento di una prole troppo estesa, vorace.
I suoi figli hanno lo sguardo bipolare, da un lato all’altro della loro casa vedono la tempesta violentare la superficie del grande mare e la brezza fare slalom tra i pali delle cozze. Il Mar Piccolo è quieto, solo a volte si increspa, ma resta fermo. Cambia colore, è rosa e grigio, sa essere blu intenso e bianco d’argento. Il Mar Grande è mare aperto, sbraita e sussurra, porta odori lontani.
E come può essere il cuore di quei figli? Sbattuti tra le onde, nati su case galleggianti, con lo sguardo sempre oltre la finestra.
Esiste l’alba a Taranto, si può vedere dal mare chiuso, quello che può essere un lago, ma quando la mente cresce da bambina negli stretti vicoli dell’isola e poi si affaccia su tutto quell’orizzonte bagnato, allora diventa audace e arrogante: mare, è il mare.
E su quel mare piccolo che si apre a est il sole sorge per chi lo vuol vedere, ma non potrebbe essere altrimenti. Non può mancare la vita in un posto dove c’è tanta morte.

lunedì 1 marzo 2010

Quello che mi manca è lo spazio per la rincorsa, un orizzonte per i miei occhi, le tue mani sulle mie ginocchia. Non ho le redini per i miei cavalli né le lucciole nei capelli, ma ho trovato un sassolino nuovo da tenere sotto la lingua per smettere di balbettare.
Lucidata a specchio per riflettere un po' più a fondo sollevo il lenzuolo e riconosco il corpo.
Ho colto la mentuccia selvatica per rosolarti a dovere e servirti alla tavola degli impiegati del buonumore: sbucciato e disossato sei molto più appetitoso.