venerdì 22 ottobre 2010

nei tempi

Nei tempi caldi e in quelli freddi. Nell’umido del mattino e di nuovo in quello della sera, nel sole delle 11 e nelle nuvole che arrivano all’ora di pranzo.
Si lavora col sole, dalle 9 alle 18, e si riposa in piedi, dalle 18 alle 23 (lo si fa stesi da lì alle 8). Nel frattempo ci si sposta dal punto di riposo a quello di lavoro, e si torna indietro. Nel frattempo si va a comprare i prodotti per mangiare, vestirsi, illuminare, scaldare, distrarsi. Si ricarica il cellulare per telefonare e per organizzare come dove e perché nello spazio di tempo tra le 18 e le 23 (al lordo dei tempi di percorrenza).
Ora sono le 11.30, lontane le nuvole del pranzo, percorsi i tempi di percorrenza, le ultime ore disponibili alla produzione se voglio salvare l’oasi del fine settimana.
E tanto per essere nei tempi giusti scrivo questo post che non ha assolutamente niente di utile, nessun tipo di risvolto speculativo ed è assolutamente no profit. E penso a quello che farò domani guardando a quell’oasi di ore tutte mie come l’unico motivo vero per cui valga la pena nuotare anche quando sale in anticipo la marea.

giovedì 14 ottobre 2010

Fa freddo, e io vorrei bere una bottiglia dopo l’altra sotto un cielo violento di stelle. Con la punta del naso gelata fuori dal cappuccio, alzare le mie mani ristrette e bere in faccia a tutto quello che c’è nel mondo. Oggi vorrei bere alle amiche lontane, ai giorni in cui ci scaldavamo col calore dei fianchi, sedute attaccate a succhiarci i pensieri e le sensazioni. Quando inventavamo ricordi che non abbiamo mai avuto e costruivamo delusioni che ci aspettavano un po’ più in là. Vorrei bere per chi tradisce le mie aspettative per realizzare i miei più profondi desideri, mentre guardiamo il tempo che scivola lontano e lanciamo la nostra felicità intorno a noi. Voglio bere per le parole che ho lasciato dire ad altre bocche, ascoltando il mio stesso pensiero ripetuto in una cassa armonica di altre volontà. Sono nella città che ho immaginato, con la vita che ho fatto per me: trasparente e leggera, che mi ferisce a ama, che mi sbatte a terra e mi fa ridere col dolore della carne. E non voglio avere paura della banalità, e non lasciarmi spaventare dai proverbi e dagli stereotipi. Voglio riempirmi la bocca di marzapane e grattarmi la testa, a lungo, scrupolosamente.
Un capitombolo di responsabilità immaginarie, come se il denaro avesse un valore! Come se la realtà avesse delle coordinate! Siamo fatti per stare un po’ più in là di tutto questo, altrimenti non avremmo caldo né freddo e la pioggia non ci bagnerebbe. Se sapessero che ci hanno rinchiuso in una stanza senza soffitto da cui non occorre fuggire! Ah, dio! Potremmo riderne per giorni!

la conta

Non ho fatto bilanci, e non mi sono sentita triste: mi sono solo stupita e dall’esplosione del mio stupore è uscita compatta una nuvola di denso fumo blu.
Ho stappato una bottiglia di Amarone che è scivolato in archi stretti e vicini sul vetro sottile sottile che suona sotto le dita.
“E so che non riuscirei a fermarti, anche se ne avessi le forze non riuscirei a farlo…”.
Girano le mie amiche nell’aria che mi circonda, nel grande vaso vuoto sul cui fondo poggio in piedi.
Ho trovato un posto alle cose: uno spazio per la violenza dell’amore, uno per l’identità, uno per i pensieri tanto profondi e tristi da notte oscura, uno per la nostalgia. La curiosità, la fiducia, lo splendore delle mattine li spargo qua e là come polvere dorata sopra i miei libri.
Mi sono svegliata. Ho visto i volti ingrandirsi e le rughe profonde nei miei compagni di sedile, come se all’improvviso avessi acceso la luce. Sono tornati i brividi e la concentrazione, come se poi la luce si fosse un po’ abbassata per fare pulizia dei pensieri inutili.
E non vorrei scrivere con la voce bassa dell’addio, ma farlo gridando come se fosse l’ultimo giorno della mia vita, e ridendo come se tutto finisse in questo istante, e piangendo come se fossi nata solo ora.