lunedì 14 novembre 2011


Ha calpestato la sciarpa perché ha le mani occupate e non è riuscito a impedire la caduta, trattiene il quotidiano e il biglietto appena stampato, gli occhiali precipitano sul naso. La raccoglie. Ha guardato l’orologio e ha preso posto. Posso vederlo: ha un giaccone nuovo, sempre blu.
È andato alla pagina della cultura, ha scorso la classifica di vendita dei libri, ha letto qualche riga dell’articolo principale, poi tornato indietro verso la politica nazionale.
Lo vedo che tira gli occhiali sulla fronte, si strofina la faccia, allunga le gambe, incrocia le braccia sul petto, si fa indietro con la schiena, la testa al muro e chiude gli occhi. Aspetta per un po’ così, immobile. Saprei dire il modo in cui fa ogni cosa.

Quando ho saputo che era arrivato mi sono fermata, sono tornata indietro e ho raggiunto casa. Plausibilmente stavo per fare altro, ma devo averlo dimenticato. Sono entrata nell’appartamento, ho lasciato scivolare le chiavi sul settimino, ho avvicinato una sedia alla finestra aperta e ho acceso una sigaretta. Guardando fuori ho ascoltato.

Ho ascoltato le lancette dell’orologio a muro fare il giro del quadrante, poi una seconda volta. Ho spento la sigaretta e sono rimasta a pensare; non lo sapevo quanto sarebbe rimasto, non sapevo quanti altri giri del quadrante avrei potuto ascoltare, eppure sono rimasta lì.

Un po’ di vento è entrato dall’altra stanza, ho sentito la tenda passare sulla scrivania e spostare qualcosa di leggero, ho sentito bruciare sulla spalla il segno delle spalline del reggiseno e l’odore dell’erba fresca, una distesa di macchie bianche sul prato apparecchiato.
Non esiste una porta abbastanza forte, né un vero oblio per la memoria.

Ha fumato una sigaretta, silenziosamente, guardando oltre lo spazio della porta; avrà cercato con lo sguardo la direzione di casa mia, avrà chiamato. Ha una scarpa slacciata e un po’ di umido sui capelli, le mani fredde. Il riscaldamento è spento. Cercando di non ricordare, forse ha chiacchierato con qualcuno: altri, pazienti, in attesa; forse una signora che cercava un po’ di compagnia per non far caso allo spaesamento, ha un cane con sé, un piccolo cane bianco col pelo rasta e il naso umido, un po’ in là con gli anni, sovrappeso.

Ho le chiavi, naturalmente ho le chiavi. Le ho trovate in borsa, almeno credo di averlo fatto. Mi fermo al portone, citofono. Non ci sei. Non ricordo se ho telefonato, non ricordo i fotogrammi di quella scena. Ci siamo incontrati, questo non l’ho cancellato, e ho continuato a pensare di non averti trovato già lì. Sei arrivato dopo? Mi concentro sul rumore che possono aver fatto i tuoi passi sulle scale, penso al battito mancato e al respiro fermo quando ho sentito fermarti, aprire.
Vedo la casa vuota, il silenzio, e l’impressione di illegittimità.
C’era un caos sporco e sciatto, un disordine cercato come una violenza autoinflitta, i mobili al centro della stanza e la stufa a gas sul soppalco; quella la ricordo bene, mi sono chiesta come avessi fatto a tirarla su per la scala a chiocciola in ferro battuto, quella scala troppo ripida e troppo stretta già per una sola persona; e la stufa con la grande bombola troppo pesante anche per essere spinta in due. E ho visto il tuo viso arrossato dalla fatica. Ti ho visto con le dita tagliate dal ferro, le braccia tese nello sforzo di salire un piano dopo l’altro col mio peso sulle spalle, per poi girarti e mostrarmi i tuoi palmi sanguinanti.
C’era odore di chiuso e di sigaretta, c’erano tracce di pasti saltati e la televisione accesa, la voce a riempire il silenzio dell’aria e a scacciare le litanie della testa.

Ho bisogno di uscire, per raggiungerlo o per andare dalla parte opposta.

Squilla il cellulare: “Sì, tutto bene. No, non so, ma ce n’è uno alle 18.22. Sono in attesa. È lì? Che fa? Sì, la sento. Non importa, non passarmela, tanto non lo capisce che sono io. Va bene… sì… ciao”. Resta un po’ con il telefono tra le mani, si stupisce del suo volume, di quella consistenza piena, del suo peso.

Quando l’ha incontrata nella piazza di tufo bianco l’ha stretta senza chiederle il permesso. L’ha avvolta e zittita, l’ha immobilizzata, l’ha aggrappata a sé, e lontano sentiva l’eco dei muri che cadevano. Ma resta a lungo il mal di pancia per le lacrime ingoiate e gli incubi sono crusca nelle pieghe intestinali, e i muri crollano ma lasciano tanta polvere.
È un’attesa senza via d’uscita.

Ha lo stesso cappotto che conosco, ma le mani rosse e gli occhi stanchi. Ha perso un po’ di luce, piango già e lui invece resta immobile.
Una volta l’ho sognato. Era in piedi vicino alla porta della mia stanza, lo guardavo senza alzarmi dal letto, aveva il volto al buio. C’era una luce bianca che gocciolava dal suo viso. Ne sentivo i singhiozzi. Tirandomi su a sedere gli ho chiesto di avvicinarsi. S’è messo al mio fianco, sulle coperte, continuava a piangere ma non faceva un movimento verso di me. Io l’ho abbracciato e gli ho chiesto scusa, avevo avuto paura, ma lui restava con le braccia lungo i fianchi, come se io non ci fossi.
Era così come ora.

venerdì 11 novembre 2011

18-12-2009

Attento quando giochi, i crateri si allargano e la strada sprofonda sotto i tuoi piedi.
Sulla luna non si cade mai, ma qui evaporiamo velocemente.
Nelle stanze umide colano i discorsi lungo le pareti, strisciano nel sonno e ci convincono che non siamo nulla. Il mare nei sogni e gli abbracci che mancano. Quello che non ho più e quello che tornerà. Lucido nella mia mente il pensiero, crolla sotto i colpi della non forza. I ritornelli non servono, restano le canzoni per addormentarci. La strada a piedi di notte per il mio mp3 già stanco di ripetersi. La saliva sputata troppo presto e sedevo nella tua auto come un autostoppista preso al semaforo. Un ospite inatteso e non voluto, ai calci contro il muro preferisco le mani che accarezzano l’intonaco, mentre gemi nel piacere del mio corpo. Il freddo sul petto si scioglie con l’amore che mi do, poco e inadatta a conservare la dolcezza ignorata. Nella catena dei discorsi non chiusi che non avremmo mai dovuto aprire, e i telefoni muti e le lettere cancellate.
Abbiamo vissuto solo quel po’ che è sfuggito al nostro controllo, ne avremmo fatto bene a meno ma non abbiamo resistito ad un richiamo istintivo. Smettiamo di calpestarci i sentimenti e i desideri, smettiamo di dirci addio e di salutarci coi nostri bei grembiulini azzurri.

martedì 8 novembre 2011

TaRo

Andrei via anche domani da qui per sentirmi dire che manco, per sentirmi dire ritorna, per lanciarmi su una rete.
Ma la mancanza arrivata ora è solo la faccia di una creatura con le gambe lunghe mesi e i piedi in un’altra stagione. E mi commuove “ti penso quando ho paura” perché mi manca quella paura. Mi manca David B. che scende attraverso tre sotterranei mentre piazza vittorio è piena di sole, io ho perso il treno per Reggio Emilia e le palline di plastica colorata sono scivolate sul pavimento della stazione Termini. E forse di là in poi non c’ho creduto più. Mi sono salutata su quel binario e sono tornata a casa, con Diario italiano sulle ginocchia e l’autista che mi guardava dallo specchietto retrovisore. C’era tanta luce attorno e io portavo il buio poggiato sui pantaloni.
Qualcuno s’è appropriato del nome della mia città per dire che non può amarla. Ma, se sei nato qui, che a questa città non puoi essere fedele lo sai da sempre, che non saprai proteggerla, che non potrai rispettarla, che ne parlerai male, che ti batterai solo a parole, che la saprai guardare solo da lontano. Noi ci osserviamo con circospezione chiedendoci già in che modo saprai fotterci, come farai a scoprirci il culo, quand’è che ci lascerai soli. E forse ci sono luoghi che devono lentamente seccarsi, come Taranto sempre piena di sole mentre l’Italia annega, luoghi che devono scoppiare ingrassati dalla loro voglia, come Roma-grasso-di-balena, e posti che fioriranno, che nasceranno e ancora non hanno un nome.
Qui si viene a seppellirsi, sé o parti di sé, a dirsi addio, a lasciarsi andare per sempre o ad abbandonare il resto con una bella lavata di mani.

giovedì 22 settembre 2011

la chiusa

È passata troppo in fretta o mai arrivata, l’ho persa mentre cercavo l’accendino nelle sacche della borsa, l’ho sottovalutata, gonfiata, strizzata e stesa alle intemperie delle cicche accese.
Non c’è un’ora dopo legata a quella prima, non c’è un’ora ancora da chiedere. Quelle che dovevano essere concesse sono state prese e le altre saranno presente, figlie di niente.

venerdì 24 giugno 2011

clap clap


E poi si va giù, per un piede messo male. Succede una cosa, una piccola o grande mutazione di stato ed è come se avessi guardato negli occhi della Medusa. Tutto scompare attorno tranne la lunga linea del battiscopa che scorri a destra e sinistra con lo sguardo mentre ti offrono un bicchiere, aspetti il bus, tieni la tazzina tra le mani, ti asciughi i capelli, giri la chiave nella porta, ti pieghi a raccogliere la borsa… quella lunga striscia di marmo su cui s’è fatto morbido uno strato di polvere ignorata… quanti misteri che nasconde…

domenica 19 giugno 2011

Non è il rumore dei tuoi piedi, questo. Sento un piccolo tocco secco e doppio, una coppia di piccoli tocchi, uno asciutto, l’altro più acuto. Le tue suole sono di gomma, e non fai rumore nel camminare.
Io ho pensieri pesanti come clarks, sentimenti instabili come ballerine e parole lunghe che creano solchi temporanei, come le pinne sulla sabbia.
Quando ero giovane e immortale ho acceso mutui sul mio futuro, scadenze bisettimanali, rate mensili, cambiali semestrali di incontinenze umorali.
Arrivi silenzioso e fischi, io sobbalzo impaurita e ogni volta scivolo all’indietro sul mio estratto conto biografico di necessarie virtù.

martedì 5 aprile 2011

rec.

Quando andavo al liceo, disegnavamo dal vivo la modella con carboncino su carta da imballaggio. Il disegno doveva essere solo abbozzato, quello che interessava era capire le proporzioni e la prospettiva. Così, se sbagliavi una linea, non c’era tanto da sistemare ma solo da fare un nuovo disegno. Allo stesso modo, se la riproduzione era corretta, appena terminato dovevi passare la pezza di cotone per pulire il foglio e partire daccapo. «Spolvera e ricomincia» diceva la mia prof, «spolvera e ricomincia».
Poi, però, c’era sempre qualcuno a cui il disegno veniva bene, allora prendeva a dare una forma più armonica al corpo, si disegnavano per sommi capi i vestiti, poi i capelli. Se volevi osare tracciavi i lineamenti. Quando la figura era completa, potevi aggiungere particolari dello sfondo, e degli oggetti vicini. A quel punto eri così affezionata al disegno che non pensavi più a spolverarlo via, ma ci passavi su il fissatore e lo mettevi nella tua cartellina. Il più delle volte, si usciva dall’aula in gruppetti di quattro cinque per nascondere il foglio arrotolato sotto la giacca, sottratto alla proprietà scolastica.

***

A volte un albero muore prematuramente. La linfa non ha l’energia per salire fino in cima e i rami perdono forza. Così, il modo migliore per farlo rinascere è tagliarne il tronco fin dove si dividono i rami, fare un’incisione al centro e incastrarvi un tassello di legno nuovo. Se al suo interno c’è ancora energia, lentamente la corteccia ricoprirà il tassello aggiunto e risanerà la ferita.

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Ecco, queste sono metafore. E le metafore, è già detto, sono pericolose. Le metafore sono contenitori plasmabili in cui incastrare tassello su tassello compiacendosi della propria arguzia. Mi ci sono sempre persa nelle metafore, sono ingannatrici. Iniziano in modo tanto simile alla realtà e poi ti portano via, in un posto dove puoi costruire parti di sceneggiatura e ritrovare il punto da cui sei partito, quando arrivi alla fine del giro.