mercoledì 26 maggio 2010

vuotitudine [della parola]

Tiro su il mio guscio di volute ossee per conservare nella migrazione il vapore residuo delle ultime tiepide ore che si sgretolano al suono della sveglia. Sottile luce sul soffitto, palpebre umide di bavosità residua.
All'orologio sul comodino restituisco un'espressione di impaziente rassegnazione e lui incredulo risponde col suono di un avviso rimesso il giorno prima per le mie speranze rinnovate. E così mi alzo infilata in quella protezione di saliva notturna e ricordi onirici ancora ostile e refrattaria in attesa del caffè.
Ma il giorno chiede che ci si versi sul tavolo da gioco e il mio guscio resta poggiato nell'alcova personale in attesa del ritorno, ci vediamo dopo il tramonto.
Fuori, nuovo abito di necessità. Si lascia il branco per trovare il sostentamento necessario alla prole e all'individuo, per pagare le bollette e mettere a tacere la rossa di un metro e cinquanta che al cinque del mese mi aspetta per riscuotere il tributo di un alloggio in subaffitto. Tra pali e cemento, col passo felpato morbido e scattante nell'attesa del tram iperaffollato. I denti in mostra in una parvenza di sorriso simpatetico che richieda la restituzione di un riconoscimento tra simili: siam qui con gli occhi gonfi a respirare smog e tutti vorremmo essere altrove, non basta ad essere solidali?
E in ghigno si tramuta la dentiera affilata, per disossare il progetto delle prossime otto ore infilate.
Ma non basta camminare, non il passo della leonessa all'attacco, né quello strisciante della processionaria che annusa la coda del vicino per impilarsi nella giusta direzione, forse la iena che aspetta il momento giusto per addentare una quasi carcassa all'orizzonte, o il condor, quando ormai la putrefazione avanza e anche quei vermicelli nel becco danno la giusta soddisfazione ad uno stomaco affamato e senza pudore. Il guscio lasciato a casa si trasforma in reazione al dondolio del percorso, un continuo rinnovarsi dell'equilibrio sul filo delle ore giornaliere.
Diciotto e trenta, con caffeina da intervallo, sigarette già bruciate sulle labbra, recriminazioni e ingiustizie ingoiate, ritrovo i miei compagni di spostamento. Gli occhi sempre gonfi, che guardano già al letto, traboccanti di lettere in bit e luci al neon. Il silenzio del viaggio, la stanchezza nelle tasche.
Viste da quassù quelle luci galleggianti sono scintille che rimbalzano sopra la salsedine liquida della mia immaginazione. Sale uno strillo sbattuto in faccia al vento e non so trattenere il dubbio e l'ironia: avrò scambiato per il mare questa discarica in liquefazione?

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