martedì 5 aprile 2011

rec.

Quando andavo al liceo, disegnavamo dal vivo la modella con carboncino su carta da imballaggio. Il disegno doveva essere solo abbozzato, quello che interessava era capire le proporzioni e la prospettiva. Così, se sbagliavi una linea, non c’era tanto da sistemare ma solo da fare un nuovo disegno. Allo stesso modo, se la riproduzione era corretta, appena terminato dovevi passare la pezza di cotone per pulire il foglio e partire daccapo. «Spolvera e ricomincia» diceva la mia prof, «spolvera e ricomincia».
Poi, però, c’era sempre qualcuno a cui il disegno veniva bene, allora prendeva a dare una forma più armonica al corpo, si disegnavano per sommi capi i vestiti, poi i capelli. Se volevi osare tracciavi i lineamenti. Quando la figura era completa, potevi aggiungere particolari dello sfondo, e degli oggetti vicini. A quel punto eri così affezionata al disegno che non pensavi più a spolverarlo via, ma ci passavi su il fissatore e lo mettevi nella tua cartellina. Il più delle volte, si usciva dall’aula in gruppetti di quattro cinque per nascondere il foglio arrotolato sotto la giacca, sottratto alla proprietà scolastica.

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A volte un albero muore prematuramente. La linfa non ha l’energia per salire fino in cima e i rami perdono forza. Così, il modo migliore per farlo rinascere è tagliarne il tronco fin dove si dividono i rami, fare un’incisione al centro e incastrarvi un tassello di legno nuovo. Se al suo interno c’è ancora energia, lentamente la corteccia ricoprirà il tassello aggiunto e risanerà la ferita.

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Ecco, queste sono metafore. E le metafore, è già detto, sono pericolose. Le metafore sono contenitori plasmabili in cui incastrare tassello su tassello compiacendosi della propria arguzia. Mi ci sono sempre persa nelle metafore, sono ingannatrici. Iniziano in modo tanto simile alla realtà e poi ti portano via, in un posto dove puoi costruire parti di sceneggiatura e ritrovare il punto da cui sei partito, quando arrivi alla fine del giro.

sabato 2 aprile 2011

Pillole blu

Il nodo di questa storia non ha a che fare con la sieropositività, eppure non la si può scindere dalla sua struttura. La malattia è la materia di cui è fatta la strada.
Pillole blu è storia autobiografica della relazione dell’autore con Cati, madre di un bambino di tre anni, con un ex marito che non può rimuovere e una malattia assopita nel sangue.
La prosa è lucida in modo incoraggiante, il tratto affettivamente pastoso. Peeters è sincero e profondamente riflessivo, assolutamente mai patetico, preda del pietismo, volutamente commovente né artificialmente generoso. Immaginate un uomo che lentamente si toglie un capo d’abbigliamento dopo l’altro e ce ne spiega l’uso, la composizione, la taglia, il colore e perché l’ha preferito a un altro. È un lavoro costante di analisi e sgretolamento delle barriere. Serve per l’ordine necessario.
Ma se la malattia è inestricabile dagli eventi, la chiarezza, la forza, la fatica che traspaiono sono universalmente validi, buoni per ogni situazione, invidiabili direi. È una riflessione sul modo in cui utilizzare quello che abbiamo, spostando gli addendi il risultato sarà pure lo stesso, ma è lo scarto della gioia con cui l’operazione si gioca che fa la differenza.
L’hiv è un compagno invisibile, sconosciuto, che anche se spiegato fa paura, ma non lascia spazio agli isterismi.
Mentre la prosa scorre con la limpidezza di una dimostrazione matematica volta a provare che ci sono più quesiti da cercare piuttosto che soluzioni da architettare, le vignette respirano di pause e sospensioni, dialoghi figurativi che restituiscono il tempo necessario all’assimilazione.
Peeters si fa le domande giuste, cerca di svelare i meccanismi di pietà, compassione o ambizione all’eroismo che possono essere la causa del suo amore.
Il rapporto col medico e con gli ospedali sono gli elementi laterali che prendono maggior spazio, ma è attraverso i dialoghi tra lui e Cati e tra lui e il lettore che si delineano tutte le problematiche che la “malattia dell’amore” comporta: le reazioni degli amici, quelle dei parenti e il rapporto col sesso. C’è poi il rapporto con il bambino, «clac-clac» un meccanismo che si incastra, lievemente, tra distanze, avvicinamenti, concessioni e rapide ritirate.
Per due volte Peeters si disegna con Cati su una zattera in mezzo al mare, su uno spazio dai confini ben delineati a cui non si può imporre una traiettoria definitiva, se non per gesti costantemente ripetuti, sempre dall’inizio, apportando a ogni ripetizione una piccola miglioria al metodo.

Frederik Peeters, Pillole blu, Kappa edizioni, 2004.