domenica 28 febbraio 2010

D.

L'uomo perfetto è caduto dentro una donna troppo profonda.
L'uomo non ha saputo ascoltare ancorato al limite del suo dna.
L'identità è variabile e molteplice, chi lo sa lo porta in sé come una profezia annunciata alla nascita.
La nostra identità moltiplicata, addizionata, sottratta. Gli uomini non possono ascoltare, hanno paura delle parole fuori dalle righe, scritte sui bordi, incise sugli avambracci.
Ho dormito al fianco della luce più oscura che conosca e lei sola ha saputo cancellare le piccole escoriazioni.
La mia storia mi troverà, me l'ha promesso lei, troverò una storia.

venerdì 26 febbraio 2010

al nord

Abbiamo destini liofilizzati da conservare nei barattoli riciclati, stracciati e stiracchiati sotto le gambe delle sedie, buttati dal finestrino delle tre di notte. Desideri di diciotto centimetri sciolti all'alba per in nostri parenti a pranzo. Stanotte restiamo svegli e aspettiamo la condensa alle finestre, per ghiacciarci gli alluci e dirci che stiamo tutti bene. Tira fuori due parole dalla memoria e rivendimele per nuove, le bugie dette come fossero preziose, i nasi lunghi, i respiri tagliati. Fingerò di crederci, fingerò che non mi importi, togliti l'ultimo sorriso e guarda nei miei occhi. I pinguini mi camminano affianco e indicano la strada che mi porta via, ma tu ormai dormi e le tue spalle spariscono sotto le coperte all'uncinetto.

È pieno di mosche il mio letto
di sali da bagno e libri per scolari.
Ho bagnato le lenzuola con acqua di lillà
strizzata dagli occhi messi ad asciugare.
Arriva da lontano la tua voce
giocata a carte col signore del tramezzo.

Nella cartina non trovo più il mio Sud
i sogni grattati con le unghie
il pane lasciato ad ammuffire.

giovedì 25 febbraio 2010

«Vogliamo libri scritti per noi che dubitiamo di tutto, che piangiamo per un niente, che sobbalziamo per ogni minimo rumore alle spalle»

Laurence Cossé

lunedì 22 febbraio 2010

venne la notte

«Dopo tanta speranza, questa fine.
E ora devo andarmene, mentre gli occhi si oscurano;
e perché vuoi che ti dica che tu esisti
se più non ti trovo.

Io non ti trovo più. No, non in me.
E non negli altri. Non in questa pietra.
Io non ti trovo più. Io sono solo.

Solo con tutta la miseria umana
che tentai di alleviare nel tuo nome,
di te, che non esisti. O vergogna infinita…

Dopo, si raccontava, venne un angelo –.

Perché un angelo? Ahimè, venne la notte,
e sfogliò con indifferenza gli alberi.
Nei sogno si agitavano i discepoli.
Perché un angelo? Ahimè, venne la notte»

R.M. Rilke, Il giardino degli ulivi


e lontano a volte vuol dire morte!

sabato 20 febbraio 2010

È con il sesso che mi comunica la sua devozione, posso entrare ovunque. Mi guarda, sorride. È lì, mi dice sono qui, mi dice che posso fare quello che voglio. Ha la pelle bianca, sembra rilucere sul mio letto oscuro, nei miei pensieri senza luce. Il suo calore, la pelle, il suo corpo morbido. Affondo la faccia nella sua pancia, la pelle mi copre le narici, non so più respirare. La sua mano sulla nuca, tra i capelli. La voglio. Voglio entrarle nella pelle, trasformarle i pensieri, sentire il suo grido. Il buio mi è entrato dentro. Con gli occhi chiusi affondo la testa tra le sue gambe. È dolce e profumata, è profonda e calda. Lei è lì che mi aspetta e non riesco a reggere la sua attesa, non posso che tradirla. Mi chiede di continuare, ma non mi muovo, la guardo. I brividi sulla sua pelle, si contorce, vuole vuole di più. Ma io non ho di più da darle. Le mie mani, la bocca, il sesso, questo posso darle, e che lo senta. Che senta la sua solitudine.
Le metto una mano sul fianco, la faccio girare, la sua schiena, i glutei. Le infilo un dito tra le gambe, cerco un varco, le sue aperture. Le lecco la schiena, la mordo, scendo lungo le gambe, risalgo, di nuovo al centro, di nuovo nel suo sesso. Mi bagna la bocca, il naso, il mento, non posso farne a meno. Faccio scivolare una grande quantità di saliva sull'ano, la bagno, la apro, le entro dentro.
Ora le faccio male, ma lei si sottrae solo un po', si sposta un attimo e subito mi si rimette sotto ubbidiente. Prende quello che le do, si apre a me, lei non vuole deludermi. Lei è forte, lei sa accogliere a tenere, lei mi stringe, ma io ho un braccio solo. Le brucia, vuole che finisca in fretta, ma io vado piano. Mi muovo lentamente, l'attrito le è insopportabile, ma io continuo così, piano, quanto resisterà? Il mio gioco che mi gioca, la mia proprietà che mi possiede.
E poi il piacere mi chiude gli occhi e mi gonfia il ventre, mi consuma.
Io mi svuoto e lei si riempie di me.

giovedì 18 febbraio 2010

piccio di sonno

Sarà colpa dell'insonnia imperante, saranno gli strani sogni pomeridiani, saranno le mail che la mattina promettono e la sera deludono, sarà il fermo immagine forzato, sarà che cerco e non so cosa né dove, saranno gli abbracci che restano interrotti, sempre precocemente interrotti, sarà il sangue sporco, sarà il caldo malato, sarà che chi c'è c'è troppo poco o troppo, saranno i pensieri ricorrenti e quel maledetto tasto pausa che s'è nascosto davvero bene. Sarà che prima c'era un senso condiviso, ma tanto prima, e ora non c'è più, forse che a trovare un senso per me sola non sono capace o non mi va, sì diciamo che non mi va, diciamo che sono distratta, diciamo che è un piccio di sonno…

mercoledì 17 febbraio 2010

Cosa importa di quello che avanza?
Esoscheletri vuoti
falde secche, scaglie di sapone.
Cosa importa di quello che rimane?
Privato del succo, asciugato, succhiato
raschiato dall'osso con lingua di gatto.
C'era questo dietro i portoni, nascosto oltre la prima fila?
Per conservare i filamenti disgregati ci siamo mantenuti saldi.
Per un sacchetto d'oro da tenere sotto il letto,
per due lettere in fila, per un solo unico momento.
Un'ora ancora, quella dopo, vomitata a lucido
calda di gas metano, troia abbandonata.

martedì 16 febbraio 2010

ginger

Ho comprato una radice di zenzero. L'ho presa da una bancarella indiana al mercato di Centocelle per 35 centesimi. La donna che me l'ha venduta aveva le dita lunghe e secche, del colore della terra rossa, e unghie ovali disegnate di henné.
Non avevo mai usato lo zenzero e così ho provato a metterlo un po' ovunque: sul riso con le patate, nel dolce al cioccolato, sulla crescenza, nel tè verde, nel soffritto degli spaghetto aglio e olio.
Ho scoperto che lo zenzero mi piace, mi pace tagliarlo e liberare la polpa umida dai filamenti legnosi della radice. Il profumo sembra quello del detersivo per i piatti al limone, ma il gusto citrico che punge la lingua mi fa pensare al ricordo di un altro luogo.
E così da due giorni mangio zenzero ovunque, lo provo grattugiato, a scaglie, a fettine e a dadini. Ci farò i biscotti, il finocchio e la pasta con la panna. Da provare sulle patatine fritte.
Lo userò per gli infusi che ristorano la gola dopo le notti lunghe di sigarette, sveglia a respirare un odore, stretta al calore di un ritorno.

lunedì 15 febbraio 2010

E poi mi chiedi perché vivo in un deja vu, perché sono in un teatro, perché sosto in una stazione.
Di cosa parlerei se dovessi dire di me? Di due case a piano terra, dei treni e degli orologi; delle parole, dei telefoni con la prolunga, delle bocche impastate. Direi degli amplessi sulla spiaggia, del vino nella plastica, delle cadute dalla bicicletta, dei tram, del nuovo sesso e dei vecchi amori. Direi di un odore stantio, dei capperi e del rosmarino, delle uova benedette a Pasqua. Dei sandali che friggono, delle bolle sotto i piedi; di un'estate che non passa, della comunicazione virtuale che non mi appartiene, delle dita dei piedi fredde. Dei colori su fogli scadenti, dei quaderni riempiti, dei libri sottolineati a penna. Direi della pioggia che mi cade sempre addosso, delle auto davanti ai portoni e dei passi notturni verso casa. Di film e di canzoni, di libri e di fumetti, delle piazze dentro i letti. Direi che per ridere faccio l'amore, che rincorro le illusioni.

Mi guardo nei frammenti di specchio, dall'altra parte della finestra stesa a giocare nella neve.

domenica 14 febbraio 2010

???

Punto 1: c'è un passato ingarbugliato da sbrogliare
Punto 2: c'è un presente in continua mutazione da vivere
Punto 3: c'è un futuro

Che sarebbe

Punto 1: c'è un presente da vivere che somiglia a una discesa libera, dove i piedi si mettono uno dopo l'altro solo per istinto di sopravvivenza, perché conoscono il loro compito. E mentre sei lì che corri per inerzia pensi che ti serve un appiglio, te ne serve proprio uno per mettere un po' di zavorra nello stomaco, tanto per svegliare il metabolismo e così…
Punto 2: cerchi materiale nella memoria, i vecchi pesi diventano ancore rassicuranti, pietre da far scivolare nell'apparato digerente… eppure…
Punto 3: ci sono tutte le cose da cercare, tutto quello che ancora non hai avuto… eppure…

Punto 4: ci sono tetti su cui è bello volare, dove l'aria è mite e ti accarezza le piume, dove le correnti ti sostengono, dove non hai paura.

E perché, poi, hai così tanta paura quando non hai paura?

sabato 13 febbraio 2010

C’è la paura che ti colpisce in viso, come onde continue, allora serve chiudere gli occhi, serrare le labbra, e remare come se non ci fosse altra via d’uscita.
Ma c’è la paura che sale dai palmi dei piedi. Si impossessa delle ossa e arriva allo stomaco, e sale nel petto, si accomoda sullo sterno e lì resta, come tenia, a svuotarci.
A volte la paura è solo soffio d'aria alle spalle, è tiepida e sembra una carezza, ti avvolge come una mano che riconosci, sussurra, ti confonde. E può capitare che copra gli altri rumori, può succedere che non ti faccia sentire le voci giuste.
Anche stare bene fa paura, avere qualcosa da perdere fa paura. La meravigliosa libertà di muoversi tra oggetti che non ci appartengono e a cui non apparteniamo.
Da cui.
Mi spaventa questo vuoto intorno. Le parole lanciate che tornano indietro, se chiudo le prospettive i pensieri rimbalzano sul muro che divide oggi da domani.

Continue lettere di addii ripetuti, confessioni reiterate, abbracci ultimativi, addi, ritorni, fughe e vacanze. Mani e sorrisi. E quella foto che ho rubato, dove hai una maglia che non conosco e poggi il braccio in un modo che non ho mai visto. Tutto quel rosso, il tuo rosso, quello che ogni volta sei tu. Quel rosso al collo di chiunque, ogni volta sei tu. Hai gli occhi lucidi e tristi e somigli tanto alla tua immagine.
Ora che non mento più, ora che ti dico ogni cosa, che ti ritrovo nella paura e nei miei attacchi di panico, ora che non ho spettatori attraverso con te la notte, dialogo con le ombre, verso le viscere.

Che in fondo le differenze ci sono ed è inutile ignorarle. E poi alcune cose restano e capita una mattina di sole di sentire un odore entrare con la luce dalla finestra aperta. E così sono nella cucina di via Castriota, a guardare il vapore salire da una pentola di terracotta e sfiorare il prezzemolo sul davanzale. Ti ricordi? Non funzionava il citofono, e gli amici fischiavano e io mi affacciavo sulla strada stretta per farli entrare. Ti ricordi il tempo a guardare il terrazzo di fronte? Doveva essere di un pezzo grosso, era così bello nel bianco di quella pietra, e noi a progettare le nostre architetture. Volevo un albero di limoni, sarebbe stato il primo acquisto, e avrei raccolto i cani dalla strada e tu avresti borbottato e detto che non potevo amare tutti, perché le ferite che avevamo non ci lasciavano sognare in pace. Ma io avrei comunque preso i cani e gatti per farli morire sui nostri divani sfatti. Avremmo arato la terra per seppellirli e io avrei continuato a cercare nei branchi una reincarnazione.
Ora il fumo metropolitano si posa sui nostri capelli e i pensieri volano più lenti. Ora la comunicazione è un file binario e i telefoni cadono nell'ammoniaca.
È vero: cucinare per sé è diverso, e non nelle quantità.
È vero che cerco la famiglia, perché in fondo le differenze ci sono, l'ho detto. Siamo fatte per creare il nido. Io lo metto su con aghi di pino e foglie di betulla, li intreccio leggeri e lascio che il vento faccia la sua parte.

giovedì 11 febbraio 2010

Nel fondo profondo di un pozzo pieno i suoi occhi mi guardano. Sorride di me. Restiamo così, in silenzio a osservarci e io non dico nulla. Vorrei allungare una mano per prenderlo, ma non lo faccio. Vertigine. Accarezzo l'acqua scura con l'indice. Poggio appena il polpastrello dell'indice destro, è fredda e ritraggo in fretta la mano. Vorrei allungarmi e accarezzarlo, ma non oso. I suoi occhi sono scuri eppure illuminano quella profondità. Negli occhi degli angeli c'è il fuoco. Ho paura di quello spazio di cui non vedo fine.
Eppure.
Questa paura la cerco, cerco l'oscurità di quello sguardo. Chiudo gli occhi e mi avvicino alla superficie liquida. La sfioro appena con il naso, sento l'odore freddo, immergo il viso. Il fresco sulle palpebre chiuse, sento un brivido che mi accarezza le orecchie. Ricordi.
Resto immobile a osservare, sul bordo.

Parole.
Accarezzarci con le parole, camminare sul filo dei significati.
Eppure.
I sensi arrivano all'insaputa, gli enigmi si svelano senza preavviso.
E poi.
Non so restare qui a guardare, non so fermare il desiderio, non posso andare oltre quello che vedo, ma camminare incontro alla fine.
Non abbiamo altro all'infuori delle nostre mani e gambe e ossa. Me lo ripeto.
La vergine analizza e la bilancia bilancia, ma la vergine è la terra, madre dal ventre caldo e sporco, madre dalle mani grandi e bocca umida. Gli schemi si rompono continuamente in ogni gesto, le parabole muoiono, le metafore si svuotano.
Siamo tutti uguali e rincorriamo gli stessi desideri. Sullo stesso carro rincorso dal fuoco, con gli occhi avanti e medesime paure sulle spalle.

lunedì 8 febbraio 2010

cooking

Il segreto per la riuscita di un buon dolce è la lievitazione. Far lievitare la pasta della pizza mi riesce piuttosto facile, mia madre dice che è questione di polso, ci si nasce. Io ho polsi e caviglie sottili e forti, ci sono nata.
I dolci sono diversi. Non seguo mai le ricette quando cucino, chiunque abbia confidenza con la cucina lo sa, non si prepara un piatto con il libro aperto davanti. Leggi una volta, memorizzi e poi vai d'esperienza.
Per i dolci è diverso. Quando faccio un dolce ho la ricetta e la bilancia sul tavolo di fronte a me, il forno non si apre durante la lievitazione e la cottura è un equilibrio instabile di temperatura.
La farina deve essere setacciata, il lievito sciolto nel latte o mischiato con la farina.
Io il lievito non lo sciolgo e non setaccio niente. Io metto tutto nella coppa e mischio. Usa la forchetta perché lo spazio tra i denti mi permette di creare nell'impasto le bolle che danno aria al lievito e fanno venire bene la lievitazione.
Io faccio così, è il modo in cui so farlo. Ho ascoltato i consigli, ho provato, ho sperimentato. Ma poi torno a farlo come ho sempre fatto. Perché conosco un modo solo per fare le cose, che poi è il mio modo.

domenica 7 febbraio 2010

anche questo

Se ti accadesse, Roberta, traversando via Ugo Bassi,
all'altezza del Self Service, di incontrare un vecchio giocoliere
un marinaio irsuto dell'Appia, o quel goffo barbuto
che si rosicchiava il niente, in un giorno di libertà
sulla parte sinistra del Reno, andando per Kostanz,
o se ancora ti accadesse, e dovrò spiegarti
come tutto ciò può accadere, di sentire nell'aria
salendo al Rizzoli o, che so, a San Luca, l'odore del pane
o dell'orzo bollito, le mille leccornie
per noi sconsiderati, o che si tingesse a festa
Porta Saragozza (te l'ho mai detto
che volevo scaricarci due carri di fieno?)
o che, poi tanto dà sempre tanto,
si potesse noi portar giù due carri di quella neve
morbida
che servirebbe a mia madre a riempirmi le tasche
a coprire il campo come con cenere
(come faccio a spiegarti i misteri
del pane, l'inverno senza neve
le notti senza luna, i frisi?
O le rivolte senza senso, i contraccolpi
le secche risposte di mio padre, i suoi tormenti
i ceci fritti, i baci in bocca a fine d'anno)
oh come faccio a spiegarti che qui il niente
non può trovare casa, che non siamo molto distanti
dalla vita. O che solo questo è vita.

Se qualcosa di questo ti accadesse, Roberta,
in via Ugo Bassi o tra gli alberi a Sciaffusa
quando l'acqua abbuffò il ricordo dei limoni
e mi costrinse alle bifore di Munot, quel fresco di morte
o il grido ai cerbiatti dentro al fossato
(ma forse te le ho dette queste cose)…
Senti Roberta, io arrivai a Wintentur una volta
per non sapere davvero che fare, sopra un treno di menta
a Zurigo, al passaggio, mi parve un giardino di cortesie:
sono stato sempre così, lo sai,
sugli occhi ho sempre avuto
due foglie di basilico – e poi sono
come il padre che non lascia mai il campo,
con gli occhi al cielo aspetto la neve.

Se qualcosa di questo ti accadesse
o se qualcuno ti parlasse di un mondo che ormai
gira sul niente, ti prego, stringi i pugni
mangiati il cuore parla delle ragazze di crema
dei loro fiori in petto, delle melodie di velluto
dei bazar in piazza a Martano
caccia le unghie fai capire che volevamo
fare della poesia di lotta, con Conversano,
dei treni che vanno a Milano, del fustagno
che vestono i poeti, delle croci di mia madre
e che il niente da noi non è innocente,
dei lupi mannari, delle tue notti
da strega, di Bodini dei peperoni
o di quando ci aggiustiamo il sole in testa coi lupini,
dei barattoli di camomilla per l'inverno
delle mele cotte dei nostri cortili dei Turchi…

oppure dì soltanto che non è da tutti rubare al cielo
i suoi segreti. Non dovercene spiegare le ragioni.



A. Verri, (per Roberta a Bologna), Il pane sotto la neve

E mi chiamavi spartuschia e mi dicevi meticcia. Un miscuglio sanguigno di bruno color di scogli e acqua gelida. Un impasto di fregi e affreschi, il limitare della tua tracotanza, la tua accoglienza.

Daunia

Che la neve fa bene al grano.

«[…] Forse vorrebbe solamente
smussare i singhiozzi di Adùnia
lasciar tutto passare, sbrecciarsi nel cuore
per introdurvi il mare.
»

Antonio Verri

sabato 6 febbraio 2010

a tombola

Mi piacerebbe scrivere una storia metaforica e profonda, di quelle che gelano le vene e lasciano soli e disperati con le inquietudini peggiori. Ma so scrivere solo di me e delle mie finestre aperte. So raccontare solo le voci che mi arrivano e l'odore di quest'aria nuova passata da decine di narici. Mi stupisco della scandalosa prevedibilità degli eventi, mi vergogno di come ogni cosa sia già decisa e cercata, voluta, chiamata. Le profezie e i desideri si avverano e mi lasciano un senso di vuoto nella gola. Cercare le somiglianze è sterile masturbazione. Non mi interessano gli specchi, non mi piacciono i ritratti. Eppure non capisco tutta questa agitazione. Questo rigirarsi tra le mani oggetti conosciuti, parole masticate. Gretti presuntuosi a discutere dell'angolazione del sopracciglio destro, dell'inflessione tonale di uno sbadiglio, del peso specifico di un punto e virgola. Anche i cani imparano a riconoscere le cose note: il loro nome, il padrone, la strada di casa. Vanitosi profeti del passato, abbiamo disegnato la carta geografica del mese che verrà, di tutto quello che abbiamo chiamato a noi. Lanciamo odori e richiami molto più profondi della nostra immatura perspicacia, abbiamo già tutto quello che ci serve, è la paura di morire dalla noia che ci fa correre in cerchio. Poveri piccoli uomini soli con loro stessi.
E Guccini non m'è piaciuto mai, ma stanotte dal sacchetto è uscito lui.

venerdì 5 febbraio 2010

Mi spinge nella stanza e accosta la porta dietro di noi. Inizia a baciarmi, lo fa con foga, con urgenza. Penso che non dovremmo. Lui mi accarezza e tira su la maglia, me la sfila, sbottona i jeans. No, non dovremmo perché abbiamo detto che non va bene, e poi non è giusto… quasi quasi mi fermo. Mi stacco, lo guardo. Mi mi si butta addosso, mi tira sul letto, si spoglia. Però quant'è bello! In fondo sono incazzata… e allora sì, perché dovrei fermarmi? È solo sesso. Così chiudo gli occhi e lo bacio. Ecco, ora lo bacio solo con gli occhi chiusi, sono solo corpo, non gli do altro. Mi gira la testa. Mi alzo, chiudo la porta a chiave. Torno sul letto. Mi fa girare. Mi si mette da dietro quando arriva Raffaele e inizia a bussare. Dice qualcosa che non capisco, sta litigando con quei ragazzini, vuole che lo aiutiamo, che diciamo a quelli di lasciarlo stare perché ha ragione lui.
Gli grido di stare fermo e non aprire. Ma lui è più veloce e abbassa la maniglia, spinge un po' la porta e apre.
Io abbasso la testa sul letto e provo a coprirmi. Resto così, nuda con la testa sotto le coperte, ignorando la sua presenza e aspettando che vada via. Ma Raffaele è ancora lì, continua a parlare. Lui gli grida di andare. Di malavoglia chiude la porta. Restiamo così, immobili per un po'.
Lui si alza.
– Dove vai?
– Ora lo piego!
Esce senza vestirsi, io provo a fermarlo. Di là ci sono tutti. Penso che se lo vedono nudo capiranno perché non riesco a mandarlo via.
Chiudo la porta, giro un po' per la stanza, raccolgo le cose sparse a terra. Entra mia madre, sotto il braccio porta un cesto pieno di vestiti.
– Ma non si chiude questa porta?
– Cosa? Ah, no… – mi sta prendendo in giro? – Mattia ha messo una scatoletta sulla serratura.
Mi guarda e sorride ironica: – Eh, povera te! Non ti lasciano un momento di tranquillità.
Penso che ha ragione, e che neanche lei però me ne lascia uno.

lunedì 1 febbraio 2010

Where

Se non piove e non c'è nebbia. Se l'aria è pulita e c'è pure il sole. Se metti la testa sotto l'acqua, se guardi come devi guardare, se non ti lasci distrarre da un volo improvviso, dal passaggio di un'immagine inaspettata. Se alzi la testa, se non hai paura, lo vedi. Non importa quant'è lontano, ma è lì solo per te. Può essere vuoto o pieno, grande o piccolo. Puoi trovarci qualcuno o essere solo, puoi arrivarci correndo o molto lentamente. Puoi fermarti, prendere una pausa, aspettare. Puoi tergiversare, controllare la rotta, dire che forse stai sbagliando. Ma se l'hai visto non si torna indietro: alla fine arrivi dove devi arrivare.