sabato 31 luglio 2010

La notte si fa tagliare dalla sfera sottile di una penna. Lascia i suoi odori fuori dalle porte serrate. Su questo materasso è inciso il peso specifico dell'insonnia, macchiato dell'umido dei miei ospiti.
Un libro di tanto tempo fa che torna a raccontarsi, poggiato alla mia spalla scossa.
Il vuoto e l'assenza con cui sciacquo il viso a ogni tramonto, un bracciale arrugginito, un frammento d'unghia.
Oggi una cicala scandisce il tempo, segna l'andamento pendolare della mente dove è rimasta conficcata una zeppetta a lasciare aperte le porte. Per quanto, ancora.

venerdì 30 luglio 2010

Iginio si diverte a sfilacciare il tappeto del mio salotto. Ha bruciato il divano con cicche di sigarette e versato zucchero negli angoli. La notte mi si siede accanto e legge il libro delle mie paure, racconta favole di fantasmi e morti precoci, sussurra agonie e abbandoni. Mi prende la mano ogni mattina e ci versa sabbia da masticare, parla con mia madre e le racconta del mio ventre vuoto.
Iginio ha preso possesso del mio comodino, dorme nel secondo cassetto, tra la biancheria pulita. Mi soffia nelle orecchie un'aria fredda e costante e soddisfatto mi passa un fazzoletto pulito.
Non si può sostare troppo a lungo, non si può parlare d'amore. Lui ha sabotato la bussola, riscritto la cartina autostradale. Mi lascia a un passo dall'orgasmo, a un soffio dalla verità, si addormenta due parole prima della rivelazione. Mi svuota le guance, mi accarezza solo al buio.
E io lo amo con la materia della mia incompletezza, con le parole delle mie inadeguatezze, con la mia assenza. Lo chiamo a cucire la forma del vento che mi sbatte dentro, a rivestire di carta listata le pareti delle bolle di sapone.

domenica 11 luglio 2010

È uscito fuori il latte mentre bolliva, sullo smalto bianco della cucina. Spegne il fuoco, vuota il bricco nella tazza, versa l'acqua sulla macchia.
Tre formiche esplorano lo zucchero di ieri, ancora sulla tavola. Sul davanzale s'è fermata una coccinella nera. Un ciglio nell'occhio. L'acqua dal rubinetto esce fresca, sotto la palpebra, cola lenta sullo zigomo. Estate.
La schiuma bianca s'è densificata in uno strato rugoso, la solleva col cucchiaino.
Stanotte il vento ha sollevato la tenda e la polvere ha conquistato le fessure. Un lungo capello nero sul cuscino di fianco. La porta s'è richiusa all'alba. S'è asciugata l'acqua sulle foglie del limone, ma non va via quel ricordo abbandonato.

sabato 10 luglio 2010

growing up

In un momento non ben definito, perso per distrazione, perché le cose importanti succedono sempre mentre siamo voltati dall'altra parte, succede che sei diventato grande.
La prima volta è un questione fisica. Lì è facile, il corpo fa tutto da solo, le ossa, la pelle, la carne aumentano e decidono da soli dove mettersi, che fare, se farti diventare un palo o un carciofo, una pera o un'aringa, un'adolescente felice o una complessata. Ma questo non è importante. Tutta la vita racchiusa fino all'adolescenza passa. Quella porzione di tempo che finge di essere la vita in realtà passa, lentamente, con difficoltà, ma poi resta chiusa lì.
Poi viene il resto. La chiamano linea d'ombra, ma a me sembra più una pianura paludosa, un lungo spazio di nebbia, un'indefinizione in cui continui a voltarti indietro, resti attaccato spasmodicamente ai vecchi bagagli ripetendo che se riuscissi a liberartene saresti felice. Ma non lo fai. E perché non lo fai? Perché intuisci. Senti che lasciati quelli diventerai una pallina sul piano inclinato, che la discesa/salita/curva/caduta/rialzata non avrà più fine.
E poi diventi grande. Una volta sola? Questo non lo so, è la prima volta che cresco. Ti dici che sei bravo e responsabile, che hai imparato a camminare, e sai che sei stato fregato.

E poi è così, qualcosa è andato via, e sogno la morte.
La morte ha tanti volti, è il mio amore nella bara con la faccia dei miei avi. E io che piango, da sola, con la testa tra le mani piango.
Chi è morto?
Il segreto per continuare mi sfugge, lo accarezzo, lo chiamo, ma lui è sempre un passo avanti a me.
La superficie ruvida degli occhi batte contro le palpebre e il corpo parla più della mente. Quando lui smette io smetto. È stato bravo a fare tutto da solo finora, è il caso di fidarsi.

E del resto non dire. Della spossatezza e del letto, delle mani e delle gambe, delle formiche e delle ali. Del resto non dire, tacere a sé. Tenere strette le labbra e chiusi i denti. Masticare.
Le sospensioni e le attese, le paure.
Tacere di discorsi e intenzioni nuove, della vecchia pelle caduta coi pensieri. Antiche scaramanzie, la fiducia in costruzione, lo sguardo che teme di andare lontano.

mercoledì 7 luglio 2010

aghi di pino

Anche se m'è venuta la fantasia di raccontare storie nuove, non peso più di una zolletta sollevata col cucchiaino. Le mie figlie si alzano il tanto necessario per scoppiare sul naso degli scoiattoli.
I buchi non mi fanno più paura, servono per infilare le dita e grattare la pelle.
Mi è spuntato un coccodrillo sotto i piedi, lo accompagno a cercare un nuovo fabbro in cambio di un pensiero felice su cui imparare a volare.
Ora che ha alzato la voce lo sento molto più vicino.