venerdì 10 settembre 2010

nuvolosità britannica

Eppure questo era il mio mese preferito. Per ovvie ragioni anagrafiche, certo, ma anche perché fa il rumore del motore quando metti la prima e dai gas. Settembre è un motore che parte, è il nono fratello, con questo nome tanto lungo, con la S che balla e la E che respira. Ma poi qualcosa, come una nuvola è scesa su questi ultimi. In parte, quella vana, la simpatia anagrafica è stata offuscata da una ricorrenza simile e troppo vicina, che non mi appartiene ma mi sgambetta, che cade dopo la mia festa come una stalattite spezzata, un po’ di intonaco scrostato che mi precipita nel piatto.
Non sottovalutabile è la strada, ovvio. Nessuno ascolta gioioso il rumore della macchina che parte e innesta con leggerezza la marcia superiore quando prosegue nella nebbia fitta. C’è la stessa possibilità che io sia ferma sul tuffo del Ciolo, sulla vetta del Gran Sasso o all’imbocco della via Emilia.
Ci sono quei ricordi recenti, quelli che si rinnovano ogni 12 mesi, che hanno a che fare con ogni stagione passata, ma maggiormente con l’ultima.

Si parlava dell’uva: «Ma a settembre l’uva non c’è ancora».
E invece sì, c’è, la ricordo. Ricordo una collana di giorni infilati su un ferro rovente, attraverso cui sono scivolata indenne mangiando solo uva. Uva tutto il giorno, tutti i giorni, e caffè e sigarette, e telefono muto, e il mio viso nello specchio, di nuovo riconoscibile, di nuovo come unico tratto reale intorno a ciò che lentamente svaniva. Non è passato molto, solo gli altri undici fratelli, non lo dimentico.
Ecco, e forse è questa la ferita che porto ancora, alimentata da parole gocciolanti e umide che restano trattenute e occludono la strada per la cicatrizzazione.
E così ho pensato che invece di farmi rincorrere, io cambio rotta e passo all’inseguimento. E allora scommetto e punto, rischio, adrenalina. E quello che s’è messo di traverso nella gola lo tiro fuori sconsideratamente, senza aspettare il momento giusto, il tono giusto, il luogo giusto, l’umidità giusta.
Ho una gran voglia di confessioni. Mettere in circolo tutte le mie persone, quelle che danno il senso, e a loro dire ogni mio scandalo. Perché è questo che c’è intorno, uno scandalo continuo. Uno scandalo di egoismi abitudinari, bugie trascurabili, sfumature taglienti, nuvolosità britanniche. Incapacità accettate, debolezze che sfoggiamo come colli di pelliccia, cadaveri eletti a chincaglieria, sacrifici per mani di sabbia.