lunedì 15 febbraio 2010

E poi mi chiedi perché vivo in un deja vu, perché sono in un teatro, perché sosto in una stazione.
Di cosa parlerei se dovessi dire di me? Di due case a piano terra, dei treni e degli orologi; delle parole, dei telefoni con la prolunga, delle bocche impastate. Direi degli amplessi sulla spiaggia, del vino nella plastica, delle cadute dalla bicicletta, dei tram, del nuovo sesso e dei vecchi amori. Direi di un odore stantio, dei capperi e del rosmarino, delle uova benedette a Pasqua. Dei sandali che friggono, delle bolle sotto i piedi; di un'estate che non passa, della comunicazione virtuale che non mi appartiene, delle dita dei piedi fredde. Dei colori su fogli scadenti, dei quaderni riempiti, dei libri sottolineati a penna. Direi della pioggia che mi cade sempre addosso, delle auto davanti ai portoni e dei passi notturni verso casa. Di film e di canzoni, di libri e di fumetti, delle piazze dentro i letti. Direi che per ridere faccio l'amore, che rincorro le illusioni.

Mi guardo nei frammenti di specchio, dall'altra parte della finestra stesa a giocare nella neve.

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