lunedì 23 novembre 2009

Su Il bell’Antonio

Non ho ancora letto il libro di Brancati, ma ho finalmente visto Il bell’Antonio nella versione cinematografica di Bolognini, con Pasolini alla sceneggiatura e Mastroianni nei panni del protagonista. Chi altro avrebbe potuto rendere l’intensità di un personaggio così malinconico, silenzioso, estraneo? Penso forse ad Alain Delon, che già interpretò il ruolo dell’uomo la cui avvenenza sembra essergli stata attaccata addosso come una colpa e non una benedizione. Ma Mastroianni raccoglie perfettamente in sé la bellezza macchiata di una certa indolenza che lo fa essere desiderabile e sfuggente, sempre altrove e sempre presente nello sguardo che denuda. Le ciglia lunghe, la pelle bianca, l’espressione triste, Antonio è l’uomo amato dalle donne, mascolino con tratti femminili, racchiude in sé il fascino dell’altro sesso livellandone la brutalità, come qualcosa che invade piano, senza dolore se non quando arriva al centro: un oggetto sessuale.
Antonio è un estraneo, un alieno nella città siciliana in cui la virilità è il primo orgoglio della stirpe, residuo della mentalità superomistica il cui vanto maggiore è l’essere stato «con nove donne in una notte sola». Il giovane che da Roma torna nella città d’origine portandosi dietro una fama immeritata da Don Giovanni, il conquistatore che le ha prese tutte.
La verità è svelata nella prima scena, di fronte a una donna in lacrime che lui non sa amare: Antonio non riesce a fare l’amore. Un’impotente, si direbbe con parole brutali, o forse una vittima della sua capacità di sentire, dell’intensità dei suoi sentimenti.
Le donne di cui si innamora sono trasfigurate in figure ultraterrene, sono angeli, non appartengono a questo mondo, come pensare di avvicinarsi senza rovinarle? Ma la donna è umana e la gabbia angelicata la costringe in un ruolo che non le appartiene, la priva della sensualità del corpo che non è cosa altra dallo spirito. Si può amare un corpo, come si amano le opere d’arte, come ci si emoziona di fronte alle creazioni della natura, di un amore che però è possesso, quando diventa fisico. Il desiderio chiede di essere soddisfatto e nella soddisfazione trova la sua morte.
L’amore, per durare, ha bisogno di sottrarsi a se stesso, di non raggiungere la completezza che lo ucciderebbe rendendolo reale, afferrabile e poi piccolo, concreto. È una menzogna che si auto-alimenta, deve celarsi: se la verità è nuda l’amore non può esserlo. Almeno non quello umano, perché chi saprebbe guardarne la meravigliosa lucentezza di fronte alla quale tutti appariremmo imperfetti e deboli?
Così nel film le ombre celano e le parole sono sussurrate, sfuggono. Lo sguardo non entra nell’intimità delle camere da letto, i segreti sono rispettati fino a quando non interviene la presenza esterna a violentarli, finché personaggi terzi non si intromettono nel lieve equilibrio degli sposi.
Senza intromissioni quell’amore sarebbe forse rimasto immutato, eterno. Ma l’uomo non sa desiderare senza prendere, quell’equilibrio si sarebbe rotto perché uno dei due un giorno, spinto dalla propria umanità, si sarebbe risvegliato e, guardando il suo sogno di purezza, non avrebbe saputo continuare quel felice inganno.



«Un giorno ti lasciai per un interno folle miraggio e me ne andai lontano.
E me ne andai per ogni suolo estraneo cercando amore.
E l’amore cercai l’estate e il verno. E sempre andai cercando amore.
Corsi cercando amore, ma l’amor non scorsi e da casa tornai malato in cuore
»

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