domenica 10 gennaio 2010

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Pomeriggi domenicali ad affrontare un superego malamente digerito. Sbattuta nel freddo delle stanze di dentro e fuori, col gas contato per il giorno dopo e il conto in rosso come un avvisaglia di cedimento.
Quartiere popolare che di domenica non trovi birra né compagnia, né un amaro nostrano per digerire pensieri e pranzi saltati. Ancora qui a cadere nei due pozzi neri di dolcezza mal passata, col peso del corpo che si sposta su un piede e su un altro perché a volare ancora non si impara.
Ho chiacchierato e bevuto e sorriso, ho camminato e sostato e ascoltato e letto. Le telefonate del dopo pranzo come ammazzacaffè non richiesto, le sberle per rivedere la realtà, le scosse per svegliare dal torpore. Il mio letto racchiuso tra mura, libri e immagini riflesse, gennaio fuori dalle coperte e palme che si piegano oltre i vetri. Gli appuntamenti rimandati e le offese lanciate. La forma delle labbra come emoticon nascoste, il suono del campanello racchiuso tra i lobi bucati.
Un sabato di pioggia e città grigie che apre il petto e rasserena i pensieri. I sogni che cadono con le teste addormentate su regionali rumorosi, il giornale del giorno prima, la mia Fulvia tenuta per mano.
Un nuovo segno sulla fronte per sorreggere i capelli, sotto la lana il petto pietrificato.
Menti geniali in simbiosi arginate, avvicinamenti appiccicosi di nebbia e saliva sputata nei discorsi accalorati. Penne e piume cadute dalle nostre ali. Buchi bianchi e neri che succhiano e sputano, centrifugati nella nostra voglia di vita, sbucciati come pecore dimenticate al pascolo. Mi attacco al corrimano e scateno primavere artificiali versate sui tuoi vestiti slavati. Abbiamo fatto l’alba e guidato con distrazione, senza paura degli etilometri per conservare la nostra identità. Scriverò a F. e parlerò con Sì, gli dirò chi siamo noi e chiederò chi sono io cercando ogni modo per poterle contraddire.

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