A far dike was broken, an old man's singing his memory.
mercoledì 16 giugno 2010
sabato 12 giugno 2010
1°
Voglio un coltello appuntito per tagliare la superficie della realtà, dividerla in parti e disporla ordinatamente sul tavolo operatorio.
Questo voglio: affilare la mia voce, e scrivere.
venerdì 11 giugno 2010
C'è una frase in un libro di Pennac, letta tanto tempo fa, ancora appesa su una parete della memoria. È una cosa stupida, una di quelle cose sentimentali ed esagerate, frasi a effetto che si smascherano facilmente all'occhio esperto: quelle che fanno vendere i libri, insomma. Sì, in effetti è veramente esagerata e un po' mi vergogno di averla lasciata appesa lì.
Come dire, una di quelle cose che alle ragazze piacciono.
Oh, ma io nutro giornalmente l'uomo pratico che mi accompagna. Lo cresco a tazze di caffè al mattino con la luce che gli trafigge gli occhi. Fuggo dai ristoranti di lusso e neanche so dov'è la gioielleria del quartiere. È vero che mi sono commossa di fronte all'unico oggetto in oro impacchettato e regalato nell'abitacolo rovente di un'automobile, ma ho solo riconosciuto un atto coraggioso, la dimostrazione di una profonda conoscenza del mio convenzionale anticonformismo.
Ogni tanto ci ripenso a quell'immagine appesa nel cerebro, quando sento che la terra ora non gira poi così veloce. Insomma, lui l'ha scritto, e certo Pennac è uno che ci sa fare con le emozioni, non è mica l'ultimo inetto arrivato. Lui conosce i trucchi del mestiere: è uno da corso di scrittura creativa.
Così ci ripenso e lo vedo ancora correre e correre.
In fondo sono una ragazza, no?
Io ci ripenso, quando il vento si ferma e mi sembra che la terra abbia smesso il suo eterno girare.
Quando la mattina il silenzio mi invade e la sera ho le scapole infreddolite. Mi viene in mente quando ripenso al sudore e alle porte prese a spallate, quando rivedo la tenda pesante e rossa e gli occhi spalancati.
L'aria è sospesa e ferma, i treni sono lontani. Non sento rumore di passi e le girandole si sono fermate.
Allora la ricordo e mi chiedo chissà dov'è che si sono fermati i corridori?
sabato 5 giugno 2010
pioggia e boschi
Ho letto solo due libri di Murakami Haruki.
Ho letto Kafka sulla spiaggia due volte, la prima ero troppo distratta da questioni personali per seguirlo davvero, leggevo di gatti parlanti, piogge di sanguisughe e ragazze immaginarie, stanze lontane, credendo ogni volta di aver perso il filo. La seconda ero così immersa in altre questioni personali da cui volevo fuggire che ho camminato con Tamura Kafka in un bosco profondo, ho parlato coi gatti e ho lasciato che ragazzi immaginari mi prendessero per mano e mi salvassero.
Ora ho letto Norwegian Wood, e per situazioni personali l'ho letto solo in tram cercando nei tempi morti lo spazio necessario a incontrarlo.
Ne deriva che non so parlarne oggettivamente, ne deriva che leggere Murakami Haruki è una questione personale. È come entrare in un mondo che ci cammina sempre affianco, come entrare in quella solitudine che è il centro più vero di noi.
Apri il libro, inizi a leggere, con leggerezza. Lentamente una pioggia sottile ti avvolge, di quelle che restano impigliate tra i capelli, sulla superficie dei vestiti. Quando richiudi sei completamente bagnato come se avessi dragato un fiume. E ora sono arrivata sulla sponda opposta.
Norwegian Wood non è costruito per scaglioni su storie indipendenti che lentamente si intrecciano seguendo il corso della loro predestinazione, come è per Kafka. Questa è una storia – d'amore, la definisce l'autore, ma io non credo nelle storie d'amore, tolto lo scarto per cui tutte possono esserlo. Parla di solitudini che si incontrano e che si riconoscono. Parla di essenza, di silenzio, dei vuoti che costituiscono l'uomo, ingannato nel credere che il suo senso sia nel materiale deperibile che tiene insieme quegli spazi ampi.
Pochi personaggi, tutti protagonisti, ognuno con una storia, ognuno mezzo e fine del protagonista, Watanabe, che arriva ai vent'anni dopo aver perso le sue persone fondamentali.
È l'unico a non avere una storia precedente a quella che si costruisce attraverso le figure presenti, è l'unico che cammina totalmente all'interno dello spazio del libro, che cresce lentamente mentre leggiamo, che capisce la responsabilità che vuol dire vivere: «Devo pagare il prezzo per continuare a vivere».
E scrive. Scrive lettere. Mantiene i fili della comunicazione con le assenze che affollano la sua esistenza: «Scrivendo mi sembrava di riuscire a tenere insieme la mia vita che altrimenti sarebbe crollata spargendo i pezzi da tutte le parti».
Ma l'ho detto, non so parlare di questo libro perché divento retorica, perché è un fatto personale. Ogni cosa è lo spunto per altro, ogni personaggio è un mondo e in tutte queste esistenze si trova qualcosa di sé.
Ora non ho bisogno di ragazzi immaginari che vengano a salvarmi, non mi servono corvi parlanti né sagge signore imperfette a tirarmi fuori dalle stanze oscure, ma ho voluto fare ugualmente questo viaggio.
Questo post è personale. Forse perché ora mi cammino un po' più vicino, perché qualcosa si è placato, perché esco dagli antri e provo a non aver paura di essere fragile e sentimentale. È un fallimento per la scrittura, ma è altro per me.
Norwegian Wood