sabato 28 agosto 2010

L'ancora è scesa inghiottita dal nero del fondo, lontano alcuni metri s'è poggiata, silente. Ora galleggio arpionata a un fondale distante, sulla superficie della terra, attratta da un punto gravitazionale nell'universo.
Non si sentono i gabbiani, né in rumore delle vasche col ghiaccio, i passi delle donne, i clacson dei motorini senza casco.
A zi' ha salutato stamattina la nostra partenza, s'è piegata a strappare le foglie secche dei gerani mentre caricavo le borse sull'auto dove tu aspettavi senza spegnere il motore.
È una violenta mattina di sole, un caldo implacabile che ci stacca la pelle dalla fronte, il sudore scende dietro le ginocchia.
Mi sono scivolate via le tua mani, viscide nei palmi umidi. Raccontami. Dove sei stato?
Domani inizia la scuola.
Volevo dirti tante cose, ma le ho dimenticate tutte, cadute sul fondale, rubate dai paguri, ingoiate da un pesce argentato.
Domani inizia la scuola.
Ho parlato a lungo col sardo mentre camminavamo sull'acqua. M'ha spiegato che la pioggia nel cuore non scioglie l'asfalto, e ho visto nelle sue spalle la durezza dei mattoni in terracotta, plasmati coi calli delle mani. E mi ha guarita un po', e mi ha fatto ammalare anche. Che la braccia forti mi fan venire voglia di essere abbracciata e di ricordare l'odore del sale asciugato nelle pieghe delle ascelle.
Così anche questa volta sono fuggita, da un calore desiderato, da un amore così morbido da poterlo spalmare sulle labbra, da far venire voglia di parlare, di aprire i cassetti e tirare fuori le foto, per farle vedere anche lui.
Non abbiamo già vissuto abbastanza? Ho già visto tutto questo. La replica di uno spettacolo bissato.
Ma queste cose non lasciartele sfuggire, portale in mezzo cucchiaino di nostalgia. Restiamo a guardare l'ancora sul fondo, guarda com'è bella, immobile come fosse un miracolo.