sabato 30 gennaio 2010

pippo-pippo

È arrivata una lettera. Mi chiedono di tornare.
È arrivato un colombo, ho lasciato che entrasse. Ha aperto appena le ali per planare sul mio cuscino. Sta male, non potrò aiutarlo.
Quando parlano di me ho un prurito al perone sinistro che sale al ginocchio. È un po' che non lo sento. Stamattina il postino è stato puntuale, uscito da un sogno alcolico che non ricordo.
Ma qui ci sono solo io e il colombo con la zampetta rotta che becca nervoso la stoffa delle mie lenzuola.
Mi sono ricordata delle cose dette tanto tempo fa, quando brindavamo nella plastica con pessimo vino emiliano, ogni volta che lo dico Federico si chiede se mi vuole ancora bene. Eppure è così, non ci vogliamo bene perché è facile farlo. Che strano, è stato facile mai?
Firmiamo una petizione contro la schiavitù delle parole, contro l'uso delle metafore e il dirottamento della logica. Manifestiamo in sostegno dei verbi all'infinito e degli acronimi, un sit-in per i falsi ricordi, per i pippo-pippo. E rotoliamoci giù per le strade, facciamo girare i ponti e cantiamo ognuno la sua canzone contemporaneamente. Facciamo ballare i pesci nelle reti e zoppicare i lombrichi, rompiamo le righe delle processionarie e soffiamo dentro le bocche aperte dal dentista. Oggi è festa, metti la giacca al contrario che ti porto a bere nella camera iperbarica. Sai, mi piace il tuo amico, avevi ragione tu, lui è bello davvero, ma mi sono cadute le dita sotto il tavolo, stavolta non ti devi preoccupare.

amedio

In quello che c'è oggi, e in quello che vedo dietro di me, i contenuti sono molteplici. Non c'è una faccia sola, ma centinaia di occhi, nasi e bocche e voci che si sovrappongono in un brusìo costante. La notte tornano e dormono con me.
Ho le mani gonfie, non era mai successo. L'inverno scorso avevo sempre i crampi ai piedi quando andavo a letto, non mi era mai successo. Quante cose ancora non mi sono mai successe? Quante non accadranno mai?
Mi dicono che c'è qualcuno che vuole qualcosa da me. Ne sento la voce lontana, ma io non credo che mi stia cercando. Quel qualcuno ha perso la sua strada, ma io non ho mai camminato nei suoi pressi, perché dovrebbe cercarmi? Si suppone, si immagina, si crede.
Poi all'improvviso piove fino a bagnarmi le caviglie. E allora? Cosa importa più?
Io gioco, ho già diviso i ruoli. E poi? Ricomincia a cadere acqua dal soffitto.
Ma prima ogni cosa era chiara, e io stavo di qua e tu là e lui da quell'altra parte. Ma ora l'acqua ha sciolto l'inchiostro.
Ho affrontato tutto con stoicismo. E allora perché non dormo da tre notti? E allora perché vorrei prendere un treno solo per pulire gli angoli in cui la polvere si è accumulata? Pasqua era troppo presto, questo l'ho già scritto.
Ascoltavo sempre una canzone quando partivo. Ora ascolto spesso una canzone di ritorni, dice che sto tornando da te, e te sono io. L'ho detto, ho diviso i ruoli ma c'è molta confusione. Io sono te, me, qualcos'altro. Tu sei lui, lei, un altrove. Noi saremo, ma per adesso no, ora no, ora ancora non si può.
E vorrei litigare. Quanto vorrei litigare. Ma io litigo solo con il babbo, il fratello, il gatto, lui e lei, solo con loro. E gridare tutta la polvere che è rimasta negli angoli e il fottuto stoicismo chiuso nell'armadio sotto l'arancia rinsecchita, perché che ora non posso gridare più non lo accetto.
E i discorsi, sì i discorsi, e che belli i discorsi. E parliamo sotto il grano che muore, e diciamoci tutto, ma che sia proprio tutto detto ora che domani chissà se siamo ancora insieme. Eppure non basta mai, eppure tutto ancora non te l'ho detto, perciò ti chiamo e vediamoci di nuovo che qualcosa è sfuggito. Ma devo salire su quel ponte che si chiama P.P.P. ma non ha niente di poetico, e devo andare via e sentire quella canzone tanto triste che dice che non ci rivedremo più, ma io lo so che ci rivedremo, ma sarebbe bello non rivederci più così potrei sentire quella canzone tanto triste ed essere triste davvero.
Ma triste davvero non lo sono, e come sarebbe bello esserlo.

venerdì 29 gennaio 2010

La nostalgia dei desideri perduti
come zucchero tra le dita.

Il processo di creazione dei pensieri logici lascia dietro di sé un cumulo di materiale di scarto. Scivola lungo la colonna vertebrale quello che avanza dalla macchina perfetta. Un impasto di materiale inutilizzato si posa tra le vertebre e intacca il movimento nervoso. Così le braccia cadono lungo i fianchi e una luce sporca avvolge ogni azione. È lo spazio millimetrico di adesione lungo i bordi dei pezzi incastrati con ragionevole precisione. Uno stridulo rumore di schegge di vetro tra le ruote, un aggettivo di troppo dopo una pausa inutilmente lunga. È quella la materia delle nostre azioni.
È nello sporco che camminiamo, umidità dell'aria al 90 per cento, particelle sospese di umori epidermici. Siamo lì, non c'è molto altro da dire.

«Mi ricordo di discorsi belli tondi e ragionevoli»

martedì 26 gennaio 2010

99

I primi 20 negli ultimi 20, dal 5 al 6, dal 5 all'1, dall'8 al 10, sempre nei 2 e 0 per 3
Dal 17 al 18, dal 4 al 5, dal 7 al 12, dall'8 al 9, sempre nei 2 e 0 per 3

venerdì 22 gennaio 2010

angry

Sveglia at six o'clock
impossibile to jump the wall in the garden
occhi aperti in my bed
e pensieri troppo heavy to fly.
Non serve essere in due
to be afraid of the morning.

giovedì 21 gennaio 2010

quello che avanza

A volte ci sono delle parole dentro, ma su un'altra strada. Le vedi oltre lo specchio e ne arrivano solo colori confusi. A volte vorrei riuscire a prenderle ma sfuggono. C'è un suono lontano che non riesci a canticchiare, forse solo un ricordo. A volte vorrei parlare e avere vicino, ma non saprei cosa dire né dirmi perché esserci. Forse vorrei solo mandare un richiamo, lanciare in aria una piccola luce che dica dove sono e farmi raggiungere. Vorrei che suonasse il mio campanello, aprire la porta e “siediti faccio un caffè”, col sole poggiato vicino al cucchiaino e lo sguardo lungo le mattonelle. E col tempo che scorre orizzontale lasciare che le cose vadano al loro posto, ricordare quel ricordo.
C'è quella cosa che resta lì, sottratta a tutto il resto, c'è quello che faccio, dico e penso, e poi c'è quello che avanza.
Il senso è una strada che ci scorre di lato.

lunedì 18 gennaio 2010

I'm speaking new

"Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa in prestito e qualcosa di blu".
È strano questo sole a gennaio… dovremmo preoccuparci del surriscaldamento terrestre? Le notti sono di nuovo dolci per accogliere i nostri passi… dovrei preoccuparmi dell’ondata di delinquenza? Le parole trovano nuove strade e nuovi ascolti… dovrei avere timore per la violazione della privacy?
Il mio Ipod è nuovo, non conserva memoria.
Sui tetti corrono i cavallucci della buonanotte.

venerdì 15 gennaio 2010

Oz

Lascia stare,
non importa,
ora andare non lascia detriti.
Vedi? I miei piedi sono già leggeri.
Lascia stare.
L’acqua scorre verso il mare
e i miei piccoli amici sono tornati.
Ascoltami
non ci sono più segreti
lo sapevamo già.
Non vedi che non ho più parole? E cosa sono senza parole?
Tutte le nostre metafore si sono rivelate,
quello che io sono lo sapevamo già,
e se apro la finestra
questo vento mi porta via.

lunedì 11 gennaio 2010

possiamo

Si può tirare su l’ancora ogni volta che cambia il vento, si può trasformare ogni cosa in una metafora, si possono vedere dipinti nelle nuvole, si può credere nella magia. Ci si può avvicinare alle persone sbagliate, si può mangiare al Macdonald, si possono scegliere capri espiatori. Si può parlare parlare e parlare, si può tacere, si può stare da soli, si può telefonare sempre a qualcuno, si possono cambiare i soggetti lasciando invariata la storia. Si possono passare ore a sfiorarsi le mani, si può sostare su un filo, si possono lasciare le famiglie, si può andare sempre più lontano. Si può stare fermi sempre e comunque, si può vedere nella geografia la mappa del nostro essere, si possono raccogliere i geni degli avi. Si può prendere sottobraccio il primo venuto, ci si può sposare vestiti di rosso, si può andare a messa con la pelliccia, si può attaccare bottone con le ragazzine, si può fare pipì davanti ai portoni. Si può lavorare gratis, ci si può far pagare per un po’ di compagnia, si può mandare tutti a ‘fanculo, si può dire ti amo a chiunque. Si può fare finta che non importi, si possono sentire canzoni struggenti cercando una lacrima che non scende, si può dire che ci importa. Ci si può vestire di viola, si può essere ecologisti e carnivori, si può essere alternativi e di tendenza. Possiamo accenderci le sigarette in bicicletta, possiamo incontrarci e fingere di conoscerci, possiamo salutare gli estranei, possiamo lasciare i cani in autostrada. Possiamo vedere la costiera amalfitana in Abruzzo e respirare a pieni polmoni sotto l’Ilva, possiamo mettere bellissimi tappeti persiani e colorarci con l’hennè, possiamo fare patti di sangue. Possiamo andare dove ci pare, fare quello che vogliamo, fingere di essere innamorati. Possiamo allungare solo un poco la mano e prendere la cosa più vicina, possiamo lasciare le porte chiuse. Possiamo raccontarci una tristezza sublime, possiamo scrivere poesie. Possiamo spiare, possiamo fingere di capire, possiamo giungere alle conclusioni. Possiamo creare sensi di colpa, possiamo accusare e perdonare, possiamo lasciarci andare. Possiamo fare tutto, qualsiasi cosa riesca per un attimo a riempire i nostri spazi vuoti.

Laputa

Al centro del potere contorto degli uomini c’è un grande albero millenario. Si possono avere troni e armi e ingegno, ma non si può vivere staccati dalla terra.
Laputa, città persa nel cielo, versione levitante di Atlantide, sogno e speranza, minaccia implacabile.
Come sempre nei film di Miyazaki, i protagonisti sono dei ragazzini, come sempre, il loro è un percorso di crescita che può avverarsi solo tramite il ricordo e il riconoscimento delle radici.
I bambini che lui descrive, però, fanno impallidire il più ferrato degli eroi adulti, hanno gli sguardi attenti e il cuore puro e sanno attrarre il loro destino con la forza dell’innocenza.
Gli elementi ricorrenti ci sono tutti: le macchine volanti, un incontro casuale ma scritto nel destino, i cattivi che diventano buoni perché bagnati dal riflesso di quell’amore innocente e giovanile che non si lascia fermare.
Pazu e Sheeta s’incontrano, lei viene posata da un potere misterioso nelle sue braccia. Sheeta è l’ultima erede del regno di Laputa, conserva solo la pietra che la guiderà alla città volante, Pazu sogna di trovare quel castello per riscattare il nome del padre, morto senza che nessuno credesse alla sua storia.
I cattivi veri sono quelli del potere istituzionale, è l’esercito, portatore legale di morte, i cattivi redenti sono i pirati. Miyazaki ogni volta vuole mostrare che ci sono delle luci tanto chiare, delle ombre molto scure e dei luoghi pronti a farsi illuminare.
La forza della storia è negli episodi laterali, nelle singole azioni che da subito portano chi guarda a un livello di empatia raro, ho visto il film con trenta adulti che ridevano, si spaventavano e trattenevano il respiro come se avessero avuto vent’anni di meno.
La musica, i paesaggi ampi e meravigliosi, i personaggi basati sugli stereotipi più riconoscibili e raffinati riportano la mente al respiro immortale dell’infanzia.
Questo film è un manuale per veri uomini, insegna a crescere e a non avere paura, a stare abbracciati per non perdersi nel vento. E anche se alla fine il fuoco della pistola nemica taglia le trecce di Sheeta, la perdita dell’innocenza non le cade addosso come sconfitta, ma come consapevolezza della sua vera natura di regina e protettrice del suo regno.
Non è di certo un film all’altezza dei suoi capolavori, ma l’effetto che crea è comunque quello sperimentato: curiosità e gioia infantile dall’inizio alla fine.
Io, davanti ai film di Miyazaki, metto su un sorriso che illumina la stanza!

domenica 10 gennaio 2010

***

Pomeriggi domenicali ad affrontare un superego malamente digerito. Sbattuta nel freddo delle stanze di dentro e fuori, col gas contato per il giorno dopo e il conto in rosso come un avvisaglia di cedimento.
Quartiere popolare che di domenica non trovi birra né compagnia, né un amaro nostrano per digerire pensieri e pranzi saltati. Ancora qui a cadere nei due pozzi neri di dolcezza mal passata, col peso del corpo che si sposta su un piede e su un altro perché a volare ancora non si impara.
Ho chiacchierato e bevuto e sorriso, ho camminato e sostato e ascoltato e letto. Le telefonate del dopo pranzo come ammazzacaffè non richiesto, le sberle per rivedere la realtà, le scosse per svegliare dal torpore. Il mio letto racchiuso tra mura, libri e immagini riflesse, gennaio fuori dalle coperte e palme che si piegano oltre i vetri. Gli appuntamenti rimandati e le offese lanciate. La forma delle labbra come emoticon nascoste, il suono del campanello racchiuso tra i lobi bucati.
Un sabato di pioggia e città grigie che apre il petto e rasserena i pensieri. I sogni che cadono con le teste addormentate su regionali rumorosi, il giornale del giorno prima, la mia Fulvia tenuta per mano.
Un nuovo segno sulla fronte per sorreggere i capelli, sotto la lana il petto pietrificato.
Menti geniali in simbiosi arginate, avvicinamenti appiccicosi di nebbia e saliva sputata nei discorsi accalorati. Penne e piume cadute dalle nostre ali. Buchi bianchi e neri che succhiano e sputano, centrifugati nella nostra voglia di vita, sbucciati come pecore dimenticate al pascolo. Mi attacco al corrimano e scateno primavere artificiali versate sui tuoi vestiti slavati. Abbiamo fatto l’alba e guidato con distrazione, senza paura degli etilometri per conservare la nostra identità. Scriverò a F. e parlerò con Sì, gli dirò chi siamo noi e chiederò chi sono io cercando ogni modo per poterle contraddire.

sabato 9 gennaio 2010

forme

E se tu avevi una citazione per ogni canzone di quelle che sono tue, non è uguale a guardare il mare e pensarti? Io porto addosso sempre quel maglione quando brindo su tavoli in plastica e sul notturno penso che i poster non crollano più e adesso tolgo le scarpe prima di andare a dormire. Le pozzanghere si sono asciugate, non le riempiono neanche i miei occhi. Che strano, solo adesso ricordo che ho preso un gatto con l’aids.

venerdì 8 gennaio 2010

water closed

«Scusa, dov’è il bagno?»
«Come?»
La musica era alta e la gente di fronte al bancone non si spostava. Gridò più forte: «Il bagno!»
«In fondo alle scale»
Si fece strada con i gomiti alzati. Faceva caldo e il sudore le colava sulla schiena mischiandosi a quello della gente che urtava.
Trovò le scale. Erano strette e scivolose, si aggrappò al passamano per non scivolare, c’era poca luce e vedeva con difficoltà i gradini. Arrivò nella saletta in fondo. Qui i rumori erano attutiti, si sentivano i bassi vibrare sul soffitto. “Donne”, entrò e si chiuse a chiave.
Il bagno era una stanza unica con lavandino e water. Alzò la gonna e si abbassò gli slip stando attenta a non toccare i bordi del gabinetto, con l’altra mano si reggeva al lavandino. Niente carta igienica, imprecò.
Si risistemò la gonna e lavò le mani sotto l’acqua, sapone finito. Si guardò allo specchio: i capelli crespi, come sempre, e il trucco sciolto per il sudore. Passò l’indice sotto gli occhi, prese il rossetto dalla borsetta e se ne stese un po’ sulle labbra. Bene.
Mise una mano sulla maniglia e con l’altra provò a girare la chiave: incastrata. Tirò un po’ la porta verso di sé e tentò di nuovo, ma proprio non girava. Calma. Lasciò andare la maniglia, si abbassò al livello della serratura, tolse la chiave e ci guardò attraverso. Si mise di nuovo dritta, infilò la chiave al suo posto e girò. Cazzo!
“Stai calma”
Insistette, ma il metallo le stava ferendo le dita, neanche un fazzoletto per aiutarsi. Non voleva metterci troppa forza, per paura di rompere la chiave.
Si allontanò, giusto i due passi che separavano la tazza dalla porta, tornò indietro, avvicinò l’orecchio alla porta per sentire se c’era qualcuno dall’altra parte. Le arrivava la musica e alcune grida d’entusiasmo in lontananza, ma nessuna voce vicina.
Riprovò.
“Ok, non entrare in panico”, tirò e spinse la porta varie volte, provò a girare la chiave dandole varie inclinazioni, ma sembrava proprio che la serratura fosse inceppata, “funzionava fino a cinque minuti fa!”.
Prese il cellulare dalla borsetta: isolato.
“E certo, siamo praticamente in un bunker”. Accese una sigaretta, “magari c’è l’allarme antifumo e vengono a tirarmi fuori”, ma la cicca finì e non era cambiato nulla.
Mise le mani sotto l’acqua, si guardò allo specchio e spalancò gli occhi in un’espressione di terrore. Sorrise. Poi, senza molta convinzione, provò con altre due spinte e girate.
“Ok, la serata è finita. Bella figura di merda, chiusa nel cesso della discoteca!”.
Inutile sperare che qualcuno si accorgesse della sua assenza, poteva essersi trattenuta al bar o aver incontrato qualcuno. Si sarebbero preoccupati solo prima di andare via, “sì, fra tre ore!”.
Guardò il gabinetto, il bordo era zuppo, escluse di sedersi.
“Ne rideranno per settimane”.
Accese un’altra sigaretta: “Ma qui non piscia nessuno?”.
Mentre gettava la cicca nell’acqua del water sentì bussare.
«Sono rimasta chiusa dentro», che fesseria.
«Occupato?» e poi dei ridolini di ragazzine.
«No, è che la porta non si apre».
«Ah!».
«Puoi chiamare qualcuno?».
«E da chi vado?».
“Imbranata!”.
«Senti, facciamo così, ti passo la chiave sotto la porta e provi ad aprirmi tu», “sì, con tutte le schifezze che si son prese queste, già è tanto se trovano il buco. Sempre che non facciano le stronze e mi lasciano qui ad ammuffire”.
«Hai capito?».
«Sì, sì, va bene… passa».
Tolse la chiave, si abbassò e la fece scivolare sul pavimento appiccicaticcio. Sentì l’altra raccoglierla, inserirle nella porta e fare un po’ di forza.
«Non ci riesco…», «dai, provo io». L’amica smanettò un po’ vicino alla serratura, lei dall’interno vedeva la maniglia fare su e giù con violenza, poi all’improvviso la porta si spalancò.
«Dio mio, meno male, stavo collassando là dentro!».
«Eh già».
«Grazie, fortuna che siete arrivate voi».
«Di niente, di niente. Possiamo andare?» disse la ragazzina indicando l’interno del bagno.
Lei uscì, le salutò e si avviò per le scale.
«Noi non chiudiamo, reggi tu, eh?».
Passò dal bar, aspettò con calma il suo turno, ordinò un rum e cola. Col bicchiere finalmente in mano tornò a ballare con i suoi amici.

mercoledì 6 gennaio 2010

Io non faccio aggiornamenti, io non parlo per parlare. Io non prendo caffè su tavolini assolati per racchiudere in mezz’ora il tempo passato, io non do pacche sulle spalle, io non do baci d’addio.
Io non scrivo per raccontare, non chiamo per salutare. Non mi faccio colpire dalle parole per restare indenne, io non inganno il tempo, io non ripeto gli stessi incontri. Io non torno nelle vecchie case, non riapro vecchie porte, non continuo vecchie tessiture.
Io vado via senza pesi sui polpacci, ascolto il canto delle sirene, sciolgo i nodi. Gli enigmi risolti mi annoiano, le giustificazioni mi nauseano, brucio le attese.
Io lascio il segno del mio morso sulle cose, io lascio lividi e tagli, porto cicatrici.
Nata col peso dei miei vestiti, vivo per dimenticare. Arriverò nuova alla fine, barattando pezzi di me. Arriverò alla fine nuda e libera. Dal polso la materia bianca della mia sovrabbondanza, scivola quello che non sapeva nutrire.

Ti auguro la tranquillità a cui aspiri. Spero che tu possa avere lunghe giornate di sole senza affanni né alcuna fretta. Che i tuoi pensieri possano giacere soddisfatti sul tavolo di fronte a te, stesi al fianco delle tue mani a riposo e che i tuoi occhi non debbano mai guardare tra le ombre. Ti auguro una vita di soddisfazione che riempia la pancia e plachi i nervi, steso nell’ozio della tua prima richiesta, senza dover cercare, senza viaggio né avventura. Un mare calmo e vento costante, il silenzio ad accarezzare le tue orecchie che sentano solo la previsione di un futuro già svelato.

lunedì 4 gennaio 2010

p.m.m.

Marco ha una casa su un ghiacciaio. L’ha comprata ma non è mai riuscito ad arrivarci. Di solito inizia la scalata, cammina quasi in verticale con il vento contro, ci arriva proprio vicino, allunga la mano anche se manca un paio di metri alla porta e poi scivola. Inizia un capitombolo implacabile verso la valle e per quanto tenti di fermare la discesa proprio non ce la fa. Ogni volta ricomincia daccapo.

Gaetano aveva i capelli molto lunghi quando l’ho conosciuto. Non era qualcosa di originale perché tutti loro avevano i capelli molto lunghi e decisamente simili: tonalità differenti di castano, tutti mossi, a volte crespi, e li portavano sempre legati in una coda morbida sulla nuca. Se ci penso ora mi è difficile ricordarli. Adesso hanno tutti i capelli corti, nessuno ha resistito.
Gaetano è stato forse l’ultimo a tagliarli, ha fatto una lunga treccia e con una sola sforbiciata ha detto addio a tutto.
Ha conservato a lungo la treccia, credo che fosse un simbolo del suo cambiamento. Tra tutti lui è quello che è cambiato di più, se c’è una progressione nelle mutazioni, se esiste una scala di valore, lui è quello che ha avuto il cambiamento migliore e più radicale. È sceso a patti con le sue debolezze e ha scoperto le sue forze, ha detto addio ai tentennamenti e ha tirato fuori la risolutezza.
Poi un giorno ha preso la treccia e l’ha buttata nel camino. Dice che ha fatto un gran fumo e una gran puzza, io credo fossero i pensieri racchiusi di un’adolescenza costipata.

continua a parlare

C’è il teschio di un gatto nelle mattonelle della mia stanza.
Sono spaventata dai ricci quando l’acqua è scura, ma mi ha detto di non aver paura e non ne ho.
Ho salutato gli amici per andare via e per tornare, ma ho dimenticato di rimettere il tappo sulla bottiglia, cosa ne sarà?
Quest’anno abbiamo distillato fiori, ma lui non si lamenta più perché c’è troppa neve e ha le labbra secche. Ora gli va bene tutto e non c’è più nulla su cui mentire.

Sei una tovaglia bianca sul tavolo della colazione, sai di sapone e hai tagliato i capelli. A Pasqua era troppo presto, non pensi? Eppure io sostavo nel tuo rispetto. Ma quanto è lontano luglio? Abbiamo scritto le stesse cose, perché anche tu hai visto i gusci morti delle cicale, ma ci sono sempre Bodini e Verri, e la ricostruzione degli eventi. Facciamo ordine, a me il letto, che mi piace disegnare e portarci il pranzo, tu prendi il tavolo, che ti piace scrivere e tirare pugni. Potrei stendere le lenzuola su un telaio e scrivere la nostra giornata, potresti cucire tovaglioli e dipingere i nostri figli.
Ora che la realtà è arrivata sui nostri cuori possiamo anche sorridere e smettere di far tremare le mani. Ripensa allo yoga e alzati in aria, continua a parlare, non smettere ora.